In queste ultime ore è rimbalzata sul web la notizia secondo cui, nell’ambito della discussione parlamentare sulla legge di stabilità, sarebbe stato approvata la cd. “webtax”.
Questo il testo attualmente approvato dalla Camera:
1. I soggetti passivi che intendano acquistare servizi on line sia come commercio elettronico diretto che indiretto, anche attraverso centri media ed operatori terzi, sono obbligati ad acquistarli da soggetti titolari di una partita IVA italiana.
2. Gli spazi pubblicitari on line e i link sponsorizzati che appaiono nelle pagine dei risultati dei motori di ricerca (altrimenti detti servizi di search advertising) , visualizzabili sul territorio italiano durante la visita di un sito o la fruizione di un servizio on line attraverso rete fissa o rete e dispositivi mobili, devono essere acquistati esclusivamente attraverso soggetti (editori, concessionarie pubblicitarie, motori di ricerca o altro operatore pubblicitario) titolari di partita IVA italiana. La disposizione si applica anche nel caso in cui l’operazione di compravendita sia stata effettuata mediante centri media, operatori terzi e soggetti inserzionisti.
3. Il regolamento finanziario, ovvero il pagamento, degli acquisti di servizi e campagne pubblicitarie on line deve essere effettuato dal soggetto che ha acquistato servizi o campagne pubblicitarie on line esclusivamente tramite lo strumento del bonifico bancario o postale, ovvero con altri strumenti di pagamento idonei a consentire la piena tracciabilità delle operazioni ed a veicolare la partita IVA del beneficiario.
Che cosa significa tutto ciò?
Sostanzialmente, si impedirebbe ad operatori esteri di commercializzare beni e/o servizi, tramite internet, nel nostro paese, salvo che tali soggetti siano in possesso di una partita IVA italiana.
Di conseguenza, i vari Google, Amazon etc., potrebbero continuare ad erogare i propri servizi solo dotandosi di una partita IVA italiana (ad es., aprendo una srl). Così facendo, i proventi di ogni operazione verrebbero – ad avviso dei promotori – assoggettati alla fiscalità italiana.
Lo stesso discorso varrebbe anche per l’acquisto di qualsivoglia tipologia di pubblicità online.
Profili di contrarietà con il diritto comunitario.
La formulazione della “webtax” presenta evidenti problemi di compatibilità con la normativa comunitaria che ora procederemo ad esaminare.
a) violazione disciplina sulla libertà di stabilimento e di prestazione dei servizi.
L’imposizione dell’apertura di una partita IVA italiana per quegli operatori non-italiani che intendano erogare i propri servizi di e-commerce in Italia rappresenta, a nostro avviso, una chiara violazione della libertà di stabilimento e della libertà di prestazione dei servizi.
Gli artt. 49 ss. del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (“TFUE”) disciplinano, infatti, la libertà di stabilimento, vietando qualsiasi restrizione non giustificata. Stesso discorso vale per la libertà di prestazione dei servizi, che consente ad un operatore UE di fornire, occasionalmente, i propri servizi in qualsivoglia Stato dell’Unione, alle medesime condizioni dei cittadini dello Stato di destinazione (cfr. 56 ss. TFUE).
La Corte di Giustizia è solita interpretare in modo molto restrittivo qualsivoglia limitazione alla libertà di stabilimento o di prestazione dei servizi. Tanto per fare un esempio, nella causa CGE 212/97, la Corte ha ravvisato una violazione del diritto comunitario nel rifiuto delle autorità danesi alla registrazione di una succursale danese di una società regolarmente costituita secondo il diritto inglese. Il rifiuto derivava dal fatto che – ad avviso delle autorità danesi – la società non esercitava alcuna seria attività commerciale in territorio britannico, sicché sembrava essere stata costituita in GB al solo scopo di operare in Danimarca e sottrarsi all’obbligo di versare un capitale sociale minimo (previsto dalla legge Danese).
Chiare le motivazioni della Corte: le disposizioni del Trattato relative alla libertà di stabilimento sono volte precisamente a consentire alle società costituite conformemente alla normativa di uno Stato membro e che hanno la loro sede sociale, l’amministrazione centrale o il loro stabilimento principale all’interno della Comunità, di svolgere attività negli altri Stati membri per il tramite di un’agenzia, di una succursale o di una filiale. Ciò considerato, il fatto che un cittadino di uno Stato membro che desideri creare una società scelga di costituirla nello Stato membro le cui norme di diritto societario gli sembrino meno severe e crei succursali in altri Stati membri non può costituire di per sé un abuso del diritto di stabilimento. Infatti, il diritto di costituire una società in conformità alla normativa di uno Stato membro e di creare succursali in altri Stati membri è inerente all’esercizio, nell’ambito di un mercato unico, della libertà di stabilimento garantita dal Trattato.
Per cui, non può che rilevarsi l’irragionevolezza di una disposizione che imponga ad una società regolarmente costituita secondo il diritto di uno Stato Membro (es. Google, con riferimento all’Irlanda) di poter operare in Italia solo richiedendo una partita IVA italiana.
b) Violazioni della disciplina comunitaria sull’IVA
La disciplina comunitaria sull’IVA è, attualmente, contenuta nella Direttiva 2006/112/CE e successive modificazioni.
Secondo i principi comunitari attualmente vigenti una determinata prestazione di e-commerce o di pubblicità online o servizi elettronici – erogata da un soggetto stabilito o residente in un altro Stato membro è assoggettata all’IVA italiana solo se effettuata nei confronti di un soggetto passivo IVA (ossia un impresa o un professionista) residente o stabilito in Italia.
Nel caso in cui, invece, detta prestazione sia erogata ad un consumatore Italiano (che si definisce “committente privato”) si applica l’IVA del luogo di residenza o stabilimento del prestatore del servizio (i.e. l’irlanda per google).
Premesso che dalla formulazione della norma (“1. I soggetti passivi che intendano acquistare servizi on line sia come commercio elettronico diretto che indiretto, anche attraverso centri media ed operatori terzi, sono obbligati ad acquistarli da soggetti titolari di una partita IVA italiana”) imprecisa e generica, non è dato comprendere esattamente se i promotori della webtax abbiano inteso riferirsi ad imprese e professionisti (i cd. “soggetti passivi”) ovvero anche ai consumatori privati (che, tuttavia, non sono soggetti passivi IVA), ci si chiede, per quale motivo, il prestatore del servizio deve essere obbligato ad aprire la partita IVA italiana?
Nel caso di un prestatore comunitario, tale richiesta costituirebbe una evidente restrizione ingiustificata alla libertà di stabilimento (vedi punto a).
Nel caso, invece, di un prestatore stabilito al di fuori della UE, vi sarebbe, comunque, un’evidente violazione del principio “one stop one shop” stabilito dagli artt. 358-bis della Direttiva IVA, per cui i prestatori extra-UE possono identificarsi ai fini IVA in un qualsiasi Stato Membro ed erogare liberamente i propri servizi in tutta la Comunità.
c) violazione normativa comunitaria sul commercio elettronico
Da ultimo, non possiamo non rilevare che la formulazione della norma evidenzia numerosi profili di incompatibilità con la Direttiva 2000/31/CE dell’8 giugno 2000 sul commercio elettronico.
In essa si legge esplicitamente che l’Unione europea intende stabilire legami sempre più di determinate disposizioni legislative, regolamentari e stretti tra gli Stati ed i popoli europei, garantire il progresso economico e sociale. Secondo l’articolo 14, paragrafo 2, del trattato, il mercato interno implica uno spazio senza frontiere interne, in cui sono garantiti la libera circolazione delle merci e dei servizi, nonché il diritto di stabilimento (considerando 1).
Soprattutto, rileva qui l’art. 3 della Direttiva (“Mercato interno”), secondo cui Gli Stati membri non possono, per motivi che rientrano nell’ambito regolamentato, limitare la libera circolazione dei servizi società dell’informazione provenienti da un altro Stato membro. Le uniche eccezioni riguardano quelle “limitazioni” necessarie per la tutela dell’ordine pubblico, della salute e dei consumatori (art. 3 par. 4), purché nel rispetto del principio di proporzionalità.
Nulla di tutto ciò avviene nella cd. “webtax”. Di fatto, si finisce per impedisce ad una società di un altro Stato Membro (Irlanda, Germania ecc.) di fornire i propri servizi in Italia, negando così un legittimo diritto previsto dal diritto comunitario.
Conclusioni
Abbiamo visto come la webtax costituisca un’evidente lesione sia dei principi comunitari in materia di libertà di stabilimento, sia di quelli IVA sia di quelli in materia di commercio elettronico.
Riteniamo che, laddove la webtax diventi effettivamente legge, vi siano forti probabilità che il nostro Paese possa essere (nuovamente) soggetto ad una procedura d’infrazione UE, con annesse sanzioni.
Per concludere, lanciamo un interrogativo a chi serve davvero questa “webtax”?
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