Cosa accade quando viene fatto firmare il consenso informato per un intervento chirurgico e, successivamente, durante l’operazione, viene effettuata una nuova diagnosi che comporta la necessità di un diverso intervento?
A tale interrogativo ha risposto la Suprema Corte, con la sentenza n. 14024/13.
Il paziente aveva firmato il consenso informato per un intervento di “fistola sacrococcigea”, ma, durante l’operazione, la diagnosi veniva cambiata, per cui era eseguita un’operazione di “fistola perianale trans-sfinterica”, la quale causava un’incontinenza (ancora attuale) alle feci solide.
Tale complicazione costituiva una possibile conseguenza del secondo tipo di intervento, ma non del primo, il quale si presentava privo di rischi specifici.
In sede di CTU, il consulente nominato dal Giudice aderiva alla tesi del danneggiato, ma, sia in primo che in secondo grado, la domanda veniva rigettata.
I Giudici di merito, infatti, ritenevano determinante il fatto che la nuova diagnosi fosse stata effettuata durante l’intervento, così che era impossibile interrompere l’intervento per acquisire il nuovo consenso, il che comportava l’esclusione di responsabilità a carico della struttura ospedaliera.
I Giudici di Piazza Cavour, invece, hanno cassato la sentenza di secondo grado, ritenendo che la Corte d’Appello non avesse motivato in maniera soddisfacente il proprio dissenso rispetto alle conclusioni del CTU.
Nello specifico, poi, gli Ermellini hanno sottolineato come la manifestazione del consenso prestata dal paziente per un determinato tipo intervento non possa estendersi ad un altro, in considerazione del diverso grado di rischi connesso alle due operazioni.
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE III CIVILE
Sentenza 22 gennaio – 4 giugno 2013, n. 14024
(Presidente Petti – Relatore Travaglino)
Svolgimento del processo
Nel giugno del 1998, C.A. evocò in giudizio, dinanzi al tribunale di Napoli, l’ospedale Cardarelli e la gestione liquidatoria dell’USL 40 Napoli 1, e ne chiese la condanna al risarcimento dei danni subiti a seguito di un intervento chirurgico, esponendo, in sintesi:
che, nel luglio del 1993, era stato ricoverato presso l’ospedale Cardarelli di Napoli con diagnosi di “ascesso gluteo destro”, successivamente specificata in “ascesso perianale – fistola sacrococcigea. Ascessualizzato”;
che, nonostante avesse firmato il modulo di cd. “consenso informato” (rectius, informazione acconsentita) riferito ad un intervento di “fistola sacrococcigea”, era stato invece operato di “fistola perianale trans-sfinterica”, riportando, come complicazione, un’incontinenza (ancora attuale) alle feci solide;
che tali complicazioni, pur se normalmente previste a seguito dell’intervento subito, non lo erano, invece, per l’intervento cui egli aveva prestato il proprio consenso.
Integrato il contraddittorio nei confronti della regione Campania, disposta ed esperita CTU, il giudice di primo grado respinse la domanda.
La corte di appello di Napoli, investita del gravame proposto dall’attore soccombente – che sostenne, con il conforto del giudizio espresso dal consulente d’ufficio, di aver subito un intervento chirurgico diverso da quello per il quale aveva prestato il proprio consenso, e per il quale nessuna informazione e nessun consenso potevano dirsi legittimamente espressi lo rigettò, ritenendo che il paziente, a seguito della modifica della diagnosi, fosse stato pur sempre reso edotto dell’esistenza di una patologia nella regione anorettale e della necessità di eseguire un intervento che, seppur a lui rappresentato come “di drenaggio ascesso perianale”, implicava all’occorrenza anche la rimozione di una fistola come causa e complicanza dell’ascesso; ed opinando ancora, sotto altro profilo, che la diagnosi precisa fosse stata eseguita necessitatis causa solo in sede di intervento chirurgico (consistito nella asportazione mediante bisturi elettrico del tessuto fistoloso sino ad arrivare ai fasci dello sfintere esterno), onde, a fronte di tale complicanza, i medici non avrebbero potuto interrompere l’intervento per munirsi di un più esplicito e dettagliato consenso.
Osserverà ancora la corte territoriale che, ove il paziente che aveva sottoscritto il consenso all’intervento suddetto non fosse stato messo al corrente dei relativi rischi e delle possibili complicanze, avrebbe dovuto egli stesso fornirne la relativa prova.
Di qui, la non condivisione, da parte della corte partenopea, delle diverse conclusioni rassegnate dal CTU, ed il conseguente rigetto dell’impugnazione.
La sentenza è stata impugnata da C.A. con ricorso per cassazione sorretto da tre motivi di doglianza e illustrato da memoria.
Resiste la regione Campania con controricorso.
Motivi della decisione
Il ricorso è fondato.
Con il primo motivo, si denuncia violazione e/o falsa applicazione degli artt. 115, 116 c.p.c. in relazione all’art. 360 I comma n. 3 e 4 c.p.c., nonché art. 360 n. 5 c.p.c. per omessa o insufficiente su fatti decisivi del giudizio.
Il motivo si conclude con il seguente quesito di diritto:
Si chiede alla Suprema Corte se la sentenza n. 4361 della corte di appello di Napoli ha realizzato una violazione dell’art. 360 nn. 3, 4 e 5 c.p.c. nella parte in cui si discosta dalle conclusioni e dalle motivazioni del CTU in assenza di contestazioni delle altre parti, omettendo di motivare adeguatamente tale dissenso, astenendosi dall’addurre elementi di contenuto scientifico altrettanto validi rispetto a quelli addotti dal CTU ed astenendosi, nel motivare il proprio contrario avviso, dall’evidenziare eventuali vizi logici insiti nel ragionamento del CTU.
Con il secondo motivo, si denuncia violazione e/o mancata applicazione degli artt. 2, 13 e 32 della Costituzione e dell’art. 3 della Carta di Nizza (Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea approvata dal Consiglio europeo il 7.12.2000), dell’art. 1218, 1176, 2230 e 2236 c.c., nonché dell’art. 33 della legge 833/78 in relazione all’art. 360 I comma n. 3 c.p.c.
Il motivo si conclude con la formulazione del quesito di diritto che segue:
Si chiede alla suprema corte se la corte di appello di Napoli, con la sentenza n. 4361/08, ha realizzato una violazione e/o mancata applicazione (delle norme indicate) nella parte in cui ritiene lecito e legittimo che il sig. A.C. sia stato sottoposto ad un intervento chirurgico di “fístulectomia perianale” che ha comportato una incompetenza fecale cronica, in presenza di un consenso informato prestato per “drenaggio ascesso perianale” che non prevede particolari rischi e complicanze e in ogni caso non contempla la possibilità che si verifichi una incontinenza fecale come è accaduto nel caso de quo.
Con il terzo motivo, si denuncia insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio.
Il motivo si conclude con la seguente sintesi espositiva (correttamente formulata ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c.):
Si chiede alla corte suprema se la sentenza n. 4361 della corte di appello di Napoli è contraddittoria nella parte in cui sostiene che è legittimo il comportamento dei sanitari dell’ospedale Cardarelli di Napoli che, dopo aver individuato con una fistolografia la presenza di una fistola perianale, hanno fatto sottoscrivere ad A. un consenso informato per drenaggio ascesso perianale operandolo di fistolectomia perianale, aggiungendo la sentenza che tale drenaggio “implicava all’occorrenza la rimozione della fistola come causa e complicanza (ulteriore contraddizione logicosemantica) dell’ascesso: d’altra parte la diagnosi precisa fu eseguita in sede di intervento chirurgico”.
I motivi (che possono essere esaminati congiuntamente, attesane la intrinseca connessione logico-giuridica) sono, nel loro complesso, fondati.
Gravemente carente appare, difatti, la motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui, pur discostandosi dalle conclusioni raggiunte dal CTU, ritiene, invero apoditticamente, “estendersi” ad un intervento diverso (e dalle diverse, possibili conseguenze) la manifestazione di Consenso prestata dal paziente a quello invece previsto, opinando, del tutto immotivatamente (ed immotivatamente sostituendo il proprio convincimento alle considerazioni espresse su base scientifiche dal perito d’ufficio), che la diversa operazione – ed i ben diversi rischi ad essa sottesi potessero ritenersi “ricompresi” nell’iniziale informazione (e ciò è a dirsi a prescindere dal criterio di riparto dell’onere probatorio così come predicato al folio 7, righi III/VI della sentenza oggi impugnata, anch’esso oggetto di error iuris da parte del giudice territoriale – vertendosi in tema di responsabilità da contatto sociale – ma non esplicitamente censurato in questa sede).
Il ricorso deve, pertanto, essere accolto, con conseguente rinvio del procedimento alla corte di appello di Napoli, che provvederà alla liquidazione delle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia il procedimento, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di cassazione, alla corte di appello di Napoli in diversa composizione.