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Il caso. Il conduttore di un immobile adibito ad agenzia di assicurazioni adiva il Tribunale, sostenendo come fosse stato violato il suo diritto di prelazione, prescritto dalla L. n. 392 del 1978, art. 38, per avere, il proprietario, venduto la suddetta proprietà ad un soggetto terzo.

Il terzo acquirente si era costituito in giudizio ed aveva contestato la domanda, deducendo che aveva acquistato un appartamento per civile abitazione, e non un locale avente destinazione commerciale. Ad ogni modo, chiedeva di essere autorizzato alla chiamata in causa della venditrice.

Quest’ultima, quindi, si costituiva in giudizio, contestando sia il diritto dell’attore al riscatto, avendo questi dichiarato in precedenza di non essere interessato all’acquisto, sia la ricorrenza dei presupposti per l’esercizio dell’azione di garanzia da parte del terzo acquirente, essendo quest’ultimo consapevole che l’immobile era stato adibito ad agenzia di assicurazione.

La quaestio iuris. La questione di diritto che la Cassazione ha dovuto risolvere concerne la validità di un contratto di locazione ad uso commerciale e la sussistenza del diritto di prelazione del conduttore ai sensi della L. n. 392 del 1978, art. 38, (e, quindi, di riscatto ai sensi del successivo art. 39) nel caso in cui l’immobile effettivamente adibito ad uso non abitativo, come da contratto, abbia invece una destinazione originaria ad uso abitativo, sicchè per lo svolgimento dell’attività commerciale vi sia stato un mutamento di destinazione d’uso non autorizzato.

La difficoltà della questione giuridica sopra menzionata risiede nel fatto che alcune precedenti pronunce della stessa Suprema Corte avevano affrontato questioni simili, seppur non identiche.

Si tratta, ad esempio, di Cass. n. 5265/1993 e n. 13291/2001, secondo cui al conduttore che esercita nell’immobile, senza le prescritte autorizzazioni amministrative, un’attività commerciale che implichi contatti diretti con il pubblico degli utenti e dei consumatori non può essere riconosciuta l’indennità per la perdita dell’avviamento commerciale, dovendosi negare tutela giuridica a chi versa in situazione illecita (cfr., nello stesso senso, anche Cass. n. 12966/2000, n. 1235/03, n. 635/07). Il principio è stato esteso, dal pure richiamato precedente di cui a Cass. n. 11908/02, al diritto di prelazione e di riscatto, che si è parimenti escluso nel caso del conduttore che svolga nell’unità immobiliare un’attività senza la prescritta autorizzazione amministrativa, poichè il presupposto della tutela risiede nella liceità dell’esercizio dell’attività commerciale (cfr., nello stesso senso, Cass. n. 7501/07).

Tuttavia, tali decisioni fanno riferimento ad ipotesi in cui l’esercizio, nell’immobile locato, di un’attività commerciale non era lecito perchè l’attività commerciale esercitata era priva delle necessarie autorizzazioni amministrative.

Questa ipotesi non ricorre, però, nel caso di specie, in cui non vi era mai stata contestazione sul fatto che il conduttore fosse stato autorizzato all’attività assicurativa, esercitata nell’immobile.

Era poi richiamata un’altra pronuncia della Suprema Corte (Cass. n. 24769/08), la quale aveva statuito “il principio per il quale, qualora le parti perseguano il risultato vietato dall’ordinamento mediante la stipulazione di un contratto la cui causa concreta si ponga direttamente in contrasto con le disposizioni urbanistiche e, in particolare, con i vincoli di destinazione posti dal locale piano regolatore, il contratto stipulato è nullo ai sensi dell’art. 1343 c.c. (per violazione, appunto, di disposizioni imperative);

Il principio è stato applicato in relazione ad un contratto di locazione per uso deposito di materiali edili di un terreno avente, invece, destinazione urbanistica a verde agricolo e bosco, ritenendosi sussistente il contrasto tra lo scopo pratico perseguito dalle parti con gli inderogabili – anche da parte dei privati – vincoli posti dalle disposizioni urbanistiche locali e nulla la locazione in parola che, in quanto volta a realizzare un godimento del bene corrispondente al risultato vietato dall’ordinamento, non solo intendeva perseguire un interesse non meritevole di tutela, ma si risolveva addirittura in termini di dannosità sociale”.

Anche in questo caso, tuttavia, i Giudici di legittimità hanno ritenuto che il principio affermato non rilevi nel caso di specie, dato che il mutamento di destinazione dell’immobile locato non era affatto in contrasto con i vincoli imposti da disposizioni urbanistiche, ma costituiva una mera conseguenza del diverso uso impresso all’immobile da parte dei privati utilizzatori, rispetto a quello risultante dal titolo autorizzativo originario (licenza edilizia) e dal certificato di abitabilità.

La Suprema Corte ha infatti rilevato che “Soltanto i vincoli di destinazione degli immobili a determinate finalità (a verde agricolo e boschivi, come nel caso esaminato dal richiamato precedente, ma anche vincoli idrogeologici e paesaggistici o di altra natura), quali risultanti dalla normativa speciale ovvero dai piani regolatori o strumenti urbanistici assimilati, rilevano anche sul piano dei rapporti tra privati, in quanto incidono sul contenuto del diritto di proprietà (cfr., tra le tante, Cass. n. 793/01, n. 4971/07, n. 2737/12); le norme che li prevedono, poichè poste a tutela di interessi pubblici, sono imperative ed inderogabili non solo nei rapporti tra i privati e la pubblica amministrazione, ma anche in ambito privatistico (cfr. Cass. S.U. n. 6600/84 e tutta la giurisprudenza successiva relativa al vincolo di cui alla L. n. 765 del 1967, art. 18). E ciò, in ragione del fatto che, con la relativa imposizione, si perseguono fini di tutela di interessi pubblici, come tali indisponibili da parte dei privati (cfr. Cass. n. 24769/08 cit.)”.

In conclusione, la circostanza per cui un immobile con destinazione abitativa venga locato a fini commerciali non fa venir meno il diritto di prelazione prescritto dalla L. 392/78 a favore del conduttore: “va affermato che, in materia di locazione di immobili urbani adibiti ad uso diverso da quello di abitazione, vanno riconosciuti al conduttore che svolga nell’unità immobiliare locata un’attività commerciale conforme all’uso contrattuale, il diritto di prelazione ed il diritto di riscatto ai sensi della L. n. 392 del 1978, artt. 38 e 39, anche nel caso in cui l’immobile abbia destinazione abitativa secondo il titolo autorizzativo originario, ed il mutamento di destinazione d’uso non sia stato previamente autorizzato ai sensi della normativa urbanistica ed edilizia vigente.

L’eventuale non conformità dell’immobile locato a tale normativa, quanto al mutamento di destinazione d’uso, non determina l’illiceità dell’oggetto nè della causa del contratto di locazione, salvo che questo non si ponga direttamente in contrasto con vincoli di destinazione posti da disposizioni urbanistiche contenute in leggi speciali ovvero negli strumenti urbanistici generali o di attuazione”.

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE III CIVILE

Sentenza 16 maggio 2013, n. 11964

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIFONE Francesco – Presidente –

Dott. PETTI Giovanni Battista – Consigliere –

Dott. D’ALESSANDRO Paolo – Consigliere –

Dott. AMBROSIO Annamaria – Consigliere –

Dott. BARRECA Giuseppina Luciana – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 20696/2007 proposto da:

M.L.A. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA, XXX, presso lo studio dell’avvocato XXX, rappresentata e difesa dall’avvocato XXX giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

A.D. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, XXX, presso lo studio dell’avvocato XXX, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato XXX giusta delega in atti;

– controricorrente –

e contro

AL.CA.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 113/2007 della CORTE D’APPELLO di CALTANISSETTA, depositata il 02/05/2007, R.G.N. 32/2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 05/04/2013 dal Consigliere Dott. GIUSEPPINA LUCIANA BARRECA;

udito l’Avvocato XXX per delega;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PRATIS Pierfelice, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo

1.- Con la decisione ora impugnata, pubblicata il 2 maggio 2007, la Corte d’Appello di Caltanissetta ha accolto parzialmente l’appello avverso la sentenza del Tribunale di Caltanissetta del 18-22 novembre 2004, proposto da M.L.A. nei confronti di A. D. e di Al.Ca.

Il Tribunale era stato adito a seguito della domanda, avanzata da A.D., di riscatto dell’immobile già appartenuto a Al.Ca., ubicato nel comune di Caltanissetta, adibito ad agenzia di assicurazioni, locato dall’ Al. all’ A. e dalla prima alienato alla M., in violazione del diritto di prelazione spettante al conduttore ai sensi della L. n. 392 del 1978, art. 38. Aveva chiesto pertanto, nei confronti di M.L. A., il riconoscimento del suo diritto di proprietà sull’immobile locato, previa corresponsione dell’importo di L. 70.000.000, corrispondente al prezzo di vendita risultante dall’atto di acquisto.

1.1.- La convenuta si era costituita in giudizio ed aveva contestato la domanda, deducendo che aveva acquistato un appartamento per civile abitazione, e non un locale avente destinazione commerciale. Aveva chiesto comunque di essere autorizzata alla chiamata in causa della venditrice, Al.Ca., perchè la tenesse indenne dalle pretese dell’attore, anche in relazione alla circostanza che il reale prezzo dell’immobile era stato di L. 160.000.000.

1.2.- Autorizzata quest’ultima chiamata, si era costituita in giudizio l’ Al., contestando sia il diritto dell’attore al riscatto, avendo questi dichiarato in precedenza di non essere interessato all’acquisto, sia la ricorrenza dei presupposti per l’esercizio dell’azione di garanzia da parte della M., essendo stata questa consapevole che l’immobile era adibito ad agenzia di assicurazione, da parte di A.D.

1.3.- Il Tribunale, espletati interrogatori formali e prova testimoniale, aveva accolto la domanda dell’ A., e, per l’effetto, aveva dichiarato il suo diritto al riscatto e condannato la M. al rilascio dell’immobile, determinando in lire 70.000.000 il prezzo da versarsi nel termine di tre mesi dal passaggio in giudicato della sentenza; aveva, inoltre, rigettato la domanda proposta dalla M. nei confronti dell’ Al.; aveva compensato tra tutte le parti le spese processuali.

2.- Proposto appello principale da parte di M.L.A., si costituivano in giudizio A.D. e, dopo l’interruzione dichiarata a causa del decesso dell’avvocato di Al.Ca., anche questa appellata, con un nuovo difensore.

La Corte d’Appello ha rigettato il gravame proposto nei confronti di A.D. ed accolto, invece, quello proposto nei confronti di Al.Ca.; ha perciò condannato quest’ultima al pagamento, in favore della M., dell’importo di Euro 41.316,55 (pari alla differenza tra quanto effettivamente pagato per la compravendita e quanto corrisposto dal riscattante), oltre interessi dal 13 febbraio 2002; ha confermato nel resto la sentenza impugnata;

ha condannato l’appellante al pagamento delle spese del grado in favore di A.D. e l’appellata Al. al pagamento delle spese del grado in favore di M.L.A.

3.- Avverso la sentenza quest’ultima propone ricorso affidato a quattro motivi, illustrati da memoria.

A.D. resiste con controricorso. Non si difende A. C.

Motivi della decisione

1.- Col primo motivo di ricorso si denuncia violazione della L. n. 392 del 1978, artt. 38 e 39, e della L. n. 47 del 1985, artt. 7 e 8, nonchè degli artt. 1418 e 1421 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. La ricorrente deduce di avere acquistato un appartamento per civile abitazione in conformità alla tipologia certificata dal Comune di Caltanissetta con il certificato di abitabilità rilasciato in data 4 agosto 1966 e prodotto in atti e di avere eccepito, sin dalle prime difese, l’inesistenza del diritto di prelazione per avere l’ A. svolto illecitamente ed illegittimamente un’attività commerciale in un immobile avente come destinazione urbanistica quella di casa di civile abitazione, nonchè la nullità del contratto di locazione per illiceità sia dell’oggetto che della causa, con la conseguente impossibilità del sorgere del diritto di prelazione. Contesta quindi l’affermazione del giudice di merito secondo cui sarebbe stata rilevante, a tale ultimo fine, la destinazione effettiva dell’immobile locato, sostenendo che il precedente citato nella sentenza impugnata (Cass. n. 3645/1991) non sarebbe pertinente in quanto riferito a fattispecie diversa da quella in oggetto. Quest’ultima dovrebbe essere regolata secondo il disposto della L. n. 47 del 1985, art. 8, che prevede, ai sensi dell’art. 7 della stessa legge, l’abusività della costruzione e dell’attività che ivi si esercita nel caso, quale quello di specie, in cui vi è il mutamento della destinazione comportante variante degli standards urbanistici, con la conseguenza della mancanza di autorizzazione allo svolgimento dell’attività e della nullità del contratto di locazione. La ricorrente richiama, a sostegno del proprio assunto, il precedente costituito dalla decisione di questa Corte n. 11908/2002, a sua volta fondata sui precedenti di cui a Cass. n. 5265/1993 e n. 13291/2001.

1.1.- Col secondo motivo di ricorso si denuncia vizio di motivazione per non avere la Corte d’Appello considerato l’ordinanza n. 1162 del 3 dicembre 2002 del Dirigente del settore urbanistico del Comune di Caltanissetta, con la quale era stato ordinato a A.D. di ripristinare la destinazione originaria dell’alloggio oggetto di causa. La ricorrente aggiunge che l’ordinanza era stata emanata a seguito dell’accertamento eseguito dai Vigili Urbani dell’avvenuto cambio di destinazione in assenza di idoneo provvedimento amministrativo. Conclude, osservando che, se detta ordinanza fosse stata considerata, la Corte d’Appello avrebbe dovuto concludere nel senso dell’illiceità del contratto di locazione.

2.- I motivi, evidentemente connessi, vanno esaminati congiuntamente e vanno respinti.

In punto di fatto non è contestato che l’immobile per cui è causa fosse stato locato da parte di Al.Ca. a A.D. perchè quest’ultimo lo destinasse ad agenzia di assicurazione, essendo la destinazione per “uso commerciale” espressamente contemplata nel contratto (stipulato con scrittura privata avente decorrenza dal 1 maggio 1993), così come non è contestato che questa fosse la destinazione effettiva dell’immobile locato, sebbene la destinazione d’uso, secondo la normativa urbanistica ed edilizia, fosse quella di appartamento per civile abitazione. Ancora, come rilevato dal resistente, è un dato acquisito che la M. fosse a conoscenza dell’esistenza del contratto di locazione per lo svolgimento di attività comportanti contatti diretti col pubblico degli utenti e dei consumatori, in quanto richiamato nel contratto di compravendita, ed inoltre, come pure rilevato dal resistente, senza che sul punto vi sia stata contestazione della ricorrente, risulta che l’attività commerciale svolta nell’immobile fosse conforme alle prescritte autorizzazioni amministrative (afferenti l’esercizio di agenzia generale assicurativa dell’Aurora Spa).

Le ulteriori deduzioni del resistente in punto di avvenuta sanatoria dell’abuso edilizio per mutamento di destinazione d’uso dell’immobile a seguito di provvedimento richiesto dallo stesso A. ai sensi della L. n. 47 del 1985, art. 13, sono invece inammissibili perchè non risulta che tale titolo autorizzatorio per il mutamento di destinazione d’uso dell’immobile sia stato ottenuto in pendenza del giudizio di merito e prodotto agli atti di questo (ed, anzi, la circostanza è contestata dalla ricorrente, con la memoria ex art. 378 c.p.c.).

Piuttosto, date le circostanze fattuali sopra dette come incontestate, la questione di diritto da risolvere concerne la validità del contratto di locazione ad uso commerciale e la sussistenza del diritto di prelazione del conduttore ai sensi della L. n. 392 del 1978, art. 38, (e, quindi, di riscatto ai sensi del successivo art. 39) nel caso in cui l’immobile effettivamente adibito all’uso non abitativo, come da contratto, abbia invece una destinazione originaria ad uso abitativo, sicchè per lo svolgimento dell’attività commerciale vi sia stato un mutamento di destinazione d’uso non autorizzato.

2.1.- In primo luogo, va sgomberato il campo dai precedenti richiamati in ricorso, e ribaditi in memoria, come pertinenti al caso di specie, essendo invece a questo estranei i presupposti fattuali su cui detti precedenti si fondano.

Si tratta di Cass. n. 5265/1993 e n. 13291/2001 secondo cui al conduttore che esercita nell’immobile, senza le prescritte autorizzazioni amministrative, una attività commerciale che implichi contatti diretti con il pubblico degli utenti e dei consumatori non può essere riconosciuta l’indennità per la perdita dell’avviamento commerciale, dovendosi negare tutela giuridica a chi versa in situazione illecita (cfr., nello stesso senso, anche Cass. n. 12966/2000, n. 1235/03, n. 635/07). Il principio è stato esteso, dal pure richiamato precedente di cui a Cass. n. 11908/02, al diritto di prelazione e di riscatto, che si è parimenti escluso nel caso del conduttore che svolga nell’unità immobiliare un’attività senza la prescritta autorizzazione amministrativa, poichè il presupposto della tutela risiede nella liceità dell’esercizio dell’attività commerciale (cfr., nello stesso senso, Cass. n. 7501/07).

Le decisioni sono riferite ad ipotesi in cui l’esercizio, nell’immobile locato, di un’attività commerciale non era lecito perchè l’attività commerciale esercitata era priva delle necessarie autorizzazioni amministrative.

Questa ipotesi non ricorre affatto nel caso di specie, in cui, come detto, non vi è mai stata contestazione sul fatto che il conduttore fosse stato autorizzato all’attività assicurativa, esercitata nell’immobile, adibito ad agenzia di assicurazioni.

3.- Ed, invero, ciò che si assume abusivo da parte ricorrente non è l’esercizio dell’attività commerciale in quanto tale, ma l’uso dell’immobile in cui questa è esercitata perchè, essendo originariamente destinato ad abitazione, siffatta destinazione sarebbe mutata in violazione della normativa edilizia ed urbanistica;

con la conseguenza, secondo la stessa ricorrente, che tale abuso avrebbe finito per rendere illecita l’attività commerciale e nullo il contratto di locazione.

In primo luogo, va rilevato che, avuto riguardo alla tipologia di abuso cui è riferito il ricorso, appare incongruo o comunque non del tutto pertinente il riferimento che il primo motivo fa alle norme della L. n. 47 del 1985, artt. 7 e 8.

Il mutamento di destinazione d’uso ha, infatti, disciplina differenziata a seconda che: a) sia attuato mediante opere edilizie, ossia mediante un intervento edilizio sull’immobile, che ne comporti una diversità strutturale rispetto allo stato preesistente, tale che, per tornare alla destinazione originaria, si rendano necessarie nuove opere, sicchè si sia di fatto in presenza di una situazione equiparabile a quella di una nuova costruzione o di un intervento di restauro o risanamento conservativo; b) sia attuato mediante opere edilizie che, tuttavia, non siano in sè significative della modifica della destinazione d’uso dell’immobile, cioè tali che non siano a questa funzionali, in modo che si abbia la realizzazione di opere in concomitanza soltanto occasionale col mutamento di destinazione d’uso; c) sia attuato senza alcuna modifica materiale dell’immobile, vale a dire in modo che la destinazione sia reversibile senza necessità di effettuare nuovi interventi edilizi sull’immobile (c.d. mutamento di destinazione funzionale).

La L. n. 47 del 1985, applicabile ratione temporis (essendo l’abuso oggetto di causa precedente l’entrata in vigore delle disposizioni di cui al D.P.R. 6 giugno 2001 n. 380), regola diversamente le diverse ipotesi sopra sinteticamente enunciate.

Gli artt. 7 e 8, indicati in ricorso, rilevano soltanto quando si tratti di mutamenti di destinazione d’uso realizzati con opere edilizie significative, rispetto alle quali si pone il problema di graduare la gravità dell’abuso, a seconda che siano opere realizzate in totale difformità dalla concessione, ai sensi dell’art. 7, comma 1, ovvero con variazioni essenziali, ai sensi della stessa norma;

queste ultime, peraltro, in tanto possono rilevare in quanto siano determinate ai sensi del successivo art. 8, il cui comma 1, prevede che le variazioni essenziali possano sussistere se vengono variati gli standards edilizi, ma sempre dopo che le Regioni abbiano stabilito i parametri di gravità delle variazioni con apposite leggi (e fatti salvi gli immobili vincolati, cui si applica l’art. 8, comma 3). Quando invece il mutamento di destinazione è realizzato senza opere edilizie significative della nuova destinazione, la sua disciplina espressa si trova nella L. n. 47 del 1985, art. 25, u.c., per il quale “la legge regionale stabilisce, altresì, criteri e modalità cui dovranno attenersi i comuni, all’atto della predisposizione di strumenti urbanistici, per l’eventuale regolamentazione, in ambiti determinati del proprio territorio, delle destinazioni d’uso degli immobili nonchè dei casi in cui per la variazione di esse sia richiesta la preventiva autorizzazione del sindaco. La mancanza di tale autorizzazione comporta l’applicazione delle sanzioni di cui all’art. 10 ed il conguaglio del contributo di concessione se dovuto”.

Di detta articolata normativa il ricorso non tiene affatto conto, sicchè, già per questo aspetto, presenta gravi profili di inammissibilità.

In particolare, l’assunto della ricorrente secondo cui si sarebbe in presenza di un mutamento di destinazione d’uso comportante variazione essenziale degli standards urbanistici non trova riscontro nè quanto all’indicazione della normativa regionale cui occorrerebbe fare indispensabile riferimento per l’individuazione dei parametri di gravità della variazione degli standards, nè quanto all’allegazione delle modalità (e specificamente delle opere edilizie) con le quali, nel caso concreto, si sarebbe realizzata la variazione essenziale comportante l’abuso.

3.1.- Nè, contrariamente a quanto sostenuto col secondo motivo di ricorso, appare decisiva l’ordinanza sindacale ivi menzionata, con la quale sarebbe stato ordinato al conduttore “di ripristinare la destinazione originaria dell’alloggio”, con avvertenza che in difetto sarebbero state applicate le sanzioni di legge; parimenti non decisivo risulta il pregresso accertamento eseguito, a detta della ricorrente, dai vigili urbani e dall’ufficio tecnico comunale che, secondo quanto esposto nello stesso motivo di ricorso, avrebbe rilevato che “il cambio di destinazione era avvenuto in assenza di idoneo provvedimento amministrativo”.

Ed, invero, entrambi sono compatibili con la fattispecie contemplata dalla L. n. 47 del 1985, art. 25, u.c., che disciplina il controllo comunale sul mutamento di destinazione d’uso anche quando non comporti esecuzione di opere edilizie significative, sottoponendolo al rilascio di un’autorizzazione, la cui mancanza non è sanzionata penalmente, bensì ai sensi dell’art. 10 della L. cit.

Peraltro, sia nelle ipotesi disciplinate dagli artt. 7 e 8, che nell’ipotesi disciplinata da tale ultimo articolo, è possibile ottenere la concessione o l’autorizzazione in sanatoria ai sensi della L. n. 47 del 1985, art. 13, quando l’opera eseguita è conforme agli strumenti urbanistici generali e di attuazione approvati e non in contrasto con quelli adottati sia al momento della realizzazione dell’opera sia al momento della presentazione della domanda.

Pertanto, ove nel caso di specie, si fosse in presenza di mutamento di destinazione d’uso soltanto non autorizzato, ai sensi della L. n. 47 del 1985, art. 25, u.c., e art. 10, nemmeno si porrebbe la questione della compatibilità della causa e dell’oggetto del contratto di locazione con la normativa edilizia ed urbanistica (cfr., per un caso analogo, Cass. n. 19190/03, in motivazione).

3.2.- Qualora, invece, si fosse in presenza di un mutamento di destinazione d’uso rilevante ai sensi degli artt. 7 e 8, della L. cit., non soltanto per questo si avrebbe, come sostenuto dalla ricorrente, la nullità del contratto di locazione per illiceità della causa o dell’oggetto, quindi l’insussistenza per il conduttore dei diritti di cui al L. n. 392 del 1978, artt. 38 e 39.

Al riguardo, merita di essere richiamato il principio, più volte espresso da questa Corte, per il quale l’eventuale non conformità dell’immobile locato alla disciplina edilizia ed urbanistica non determina l’illiceità dell’oggetto del contratto, atteso che il requisito della liceità dell’oggetto previsto dall’art. 1346 cod. civ., è da riferire alla prestazione, ovvero al contenuto del negozio e non al bene in sè, nè determina l’illiceità della causa per contrasto con l’ordine pubblico ai sensi dell’art. 1343 c.c. (così Cass. n. 4228/99 e n. 19190/03) ovvero la nullità per violazione della L. n. 47 del 1985, art. 40, comma 2, in quanto norma riferita ai contratti ad effetti reali (Cass. n. 22312/07 e n. 12983/10).

Atteso il richiamo fatto nella memoria della ricorrente al precedente costituito da Cass. n. 24769/08 (in apparente dissonanza con i precedenti appena richiamati), merita soffermarsi sull’ipotesi di nullità determinata dall’illiceità della causa per contrasto con norme imperative.

La pronuncia indicata in memoria ha affermato il principio per il quale, qualora le parti perseguano il risultato vietato dall’ordinamento mediante la stipulazione di un contratto la cui causa concreta si ponga direttamente in contrasto con le disposizioni urbanistiche e, in particolare, con i vincoli di destinazione posti dal locale piano regolatore, il contratto stipulato è nullo ai sensi dell’art. 1343 c.c. (per violazione, appunto, di disposizioni imperative); il principio è stato applicato in relazione ad un contratto di locazione per uso deposito di materiali edili di un terreno avente, invece, destinazione urbanistica a verde agricolo e bosco, ritenendosi sussistente il contrasto tra lo scopo pratico perseguito dalle parti con gli inderogabili – anche da parte dei privati – vincoli posti dalle disposizioni urbanistiche locali e nulla la locazione in parola che, in quanto volta a realizzare un godimento del bene corrispondente al risultato vietato dall’ordinamento, non solo intendeva perseguire un interesse non meritevole di tutela, ma si risolveva addirittura in termini di dannosità sociale.

Il Collegio ritiene che il principio affermato e la sua applicazione non rilevino nel caso di specie, in cui il mutamento di destinazione dell’immobile locato non è affatto in contrasto con vincoli imposti da disposizioni urbanistiche, ma è conseguenza del diverso uso impresso all’immobile da parte dei privati utilizzatori, rispetto a quello risultante dal titolo autorizzativo originario (licenza edilizia) e dal certificato di abitabilità.

Soltanto i vincoli di destinazione degli immobili a determinate finalità (a verde agricolo e boschivi, come nel caso esaminato dal richiamato precedente, ma anche vincoli idrogeologici e paesaggistici o di altra natura), quali risultanti dalla normativa speciale ovvero dai piani regolatori o strumenti urbanistici assimilati, rilevano anche sul piano dei rapporti tra privati, in quanto incidono sul contenuto del diritto di proprietà (cfr., tra le tante, Cass. n. 793/01, n. 4971/07, n. 2737/12); le norme che li prevedono, poichè poste a tutela di interessi pubblici, sono imperative ed inderogabili non solo nei rapporti tra i privati e la pubblica amministrazione, ma anche in ambito privatistico (cfr. Cass. S.U. n. 6600/84 e tutta la giurisprudenza successiva relativa al vincolo di cui alla L. n. 765 del 1967, art. 18). E ciò, in ragione del fatto che, con la relativa imposizione, si perseguono fini di tutela di interessi pubblici, come tali indisponibili da parte dei privati (cfr. Cass. n. 24769/08 cit.).

Orbene, la locazione per l’uso diverso da quello cosiddetto di partenza non è in deroga ad un vincolo pubblicistico di destinazione, come nel caso in cui, in presenza di vincoli pubblicistici di destinazione, la stessa locazione sia lo strumento giuridico utilizzato per realizzare ed assicurare un godimento in concreto corrispondente alla destinazione vietata.

Per come reso evidente dalla disciplina sopra richiamata, ed in particolare dalla L. n. 47 del 1985, art. 25, u.c., per il caso di mutamento di destinazione d’uso c.d. soltanto funzionale, la normativa pubblicistica non mira a garantire una determinata destinazione d’uso dell’immobile, riferita all’attività umana che ivi sì svolge, ma assume piuttosto finalità di controllo sul territorio delle attività non edilizie, assimilabili a finalità di polizia urbana. E ciò a differenza delle ipotesi in cui si abbiano vincoli di destinazione degli immobili per la tutela di precisi interessi pubblici, che costituiscono veri e propri limiti alla proprietà privata, pur conformi al dettato costituzionale, alla stregua della previsione dell’art. 42 della Costituzione (cfr. Cass. n. 24769/08 cit.).

Quando la modifica della destinazione originaria risulti attuata con opere edilizie abusive ai sensi della L. n. 47 del 1985, artt. 7 e 8, secondo quanto sopra, sono queste ultime opere a rilevare in quanto realizzate in totale difformità dalla concessione ovvero con variazioni essenziali, secondo i parametri di gravità definiti dalle leggi regionali, non il mutamento di destinazione d’uso che ne abbia costituito lo scopo.

Corollario della disciplina sopra delineata è che, se pure può ascriversi alla causa del contratto di locazione – a maggior ragione se considerata come causa concreta, vale a dire come scopo pratico perseguito dalle parti con l’adozione di un determinato schema negoziale (cfr. Cass. n. 10490/06 e numerose altre successive) – l’interesse a destinare l’immobile ad un determinato uso (nel caso di specie, ad uso commerciale) non conforme a quello originario, esso non comporta l’illiceità della causa per contrasto con norme imperative, poichè non è questa destinazione, in sè considerata, ad essere vietata dall’ordinamento, come nelle ipotesi considerate dal precedente su citato (nonchè da altri di questa Corte, pure relativi ad ipotesi di violazione di vincoli di destinazione a carattere pubblicistico: cfr., specificamente in tema di locazione di spazi destinati a parcheggio, Cass. n. 19308/05, n. 638/07, n. 16172/07, tra le altre). Piuttosto, potrebbero essere in contrasto con la normativa urbanistica ed edilizia le modalità con le quali si è realizzato il mutamento di destinazione d’uso, ma siffatte modalità sono estranee alla causa del contratto di locazione, sia se considerata in astratto, sia, almeno nel caso di specie, se considerata in concreto.

In conclusione, va affermato che, in materia di locazione di immobili urbani adibiti ad uso diverso da quello di abitazione, vanno riconosciuti al conduttore che svolga nell’unità immobiliare locata un’attività commerciale conforme all’uso contrattuale, il diritto di prelazione ed il diritto di riscatto ai sensi della L. n. 392 del 1978, artt. 38 e 39, anche nel caso in cui l’immobile abbia destinazione abitativa secondo il titolo autorizzativo originario, ed il mutamento di destinazione d’uso non sia stato previamente autorizzato ai sensi della normativa urbanistica ed edilizia vigente.

L’eventuale non conformità dell’immobile locato a tale normativa, quanto al mutamento di destinazione d’uso, non determina l’illiceità dell’oggetto nè della causa del contratto di locazione, salvo che questo non si ponga direttamente in contrasto con vincoli di destinazione posti da disposizioni urbanistiche contenute in leggi speciali ovvero ì negli strumenti urbanistici generali o di attuazione. Il primo ed il secondo motivo di ricorso vanno perciò rigettati.

4.- Col terzo motivo di ricorso si denuncia violazione dell’art. 112 c.p.c., e degli artt. 1479, 1483 e 1223 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, per avere la Corte d’Appello condannato la Al. a corrispondere alla M. la somma di Euro 41.316,55 piuttosto che quella di Euro 46.481,13 che, secondo la ricorrente, sarebbe l’effettiva differenza tra il prezzo pagato e quello risultante dal contratto di compravendita del 26 giugno 2001.

Aggiunge che, avendo la Corte territoriale accertato, attraverso le deposizioni dei testimoni F. e D., che il prezzo di vendita sarebbe stato convenuto in L. 160.000.000, non avrebbe poi potuto condannare la venditrice Al. alla restituzione parziale della somma risultata come non dovuta, a seguito del diritto di riscatto esercitato con successo dal conduttore.

4.1.- Col quarto motivo di ricorso si denuncia vizio di motivazione per la omessa valutazione delle deposizioni dei testimoni F. e D., che, secondo la ricorrente, se valutate, avrebbero dovuto condurre la Corte territoriale ad una conclusione differente da quella, già denunciata come error in iudicando col terzo motivo, e comunque priva di motivazione.

5.- I motivi, da esaminarsi congiuntamente, vanno respinti. La Corte d’Appello non ha affatto omesso la valutazione delle deposizioni dei testimoni F. e D., ma ne ha tratto una conclusione, in punto di fatto, differente da quella pretesa dalla ricorrente. La conclusione raggiunta dal giudice di merito si fonda, peraltro, non solo sulla prova testimoniale, ma sulle risultanze di questa considerate unitamente alla prova documentale fornita dalla stessa M. e costituita dalle “matrici di cinque assegni circolari per complessive L. 80.000.000, emessi dalla Banca Antoniana Popolare Veneta all’ordine della M. medesima”, secondo quanto si legge in sentenza. La Corte territoriale, svolgendo ampia motivazione sul punto – del tutto trascurata dalla ricorrente, che non solo non la censura, ma nemmeno vi fa cenno nei motivi terzo e quarto del ricorso – ha ritenuto di trarre da detta documentazione la prova che la parte di prezzo che, benchè non risultante dal contratto, venne versata per l’acquisto dell’immobile fosse pari appunto a L. 80.000.000 (piuttosto che a L. 90.000.000 come preteso dalla M.), corrispondente all’importo di Euro 41.316,55. Accertata questa somma come complessivamente dovuta, la Corte ha condannato la venditrice al suo integrale pagamento in favore dell’acquirente, a causa dell’evizione da questa subita per l’esercizio del diritto di riscatto da parte del conduttore.

Tutto quanto detto comporta che non vi sia stato alcun error in iudicando. Infatti, non vi è stata la condanna della venditrice alla restituzione di parte soltanto di quanto indebitamente percepito, bensì la condanna alla restituzione di quella che il giudice di merito ha ritenuto essere tutta intera la differenza tra quanto pagato dalla M. alla Al. e quanto corrisposto alla prima direttamente dal conduttore riscattante, a titolo di prezzo (pari alla somma di L. 70.000.000, risultante dal contratto di compravendita). In merito alla quantificazione di detta differenza, si tratta di un accertamento in fatto, riguardo al quale la Corte di merito ha fornito ampia ed adeguata motivazione, in parte nemmeno censurata dalla ricorrente ed in parte censurata con argomenti sia infondati (non avendo la Corte omesso di considerare la prova testimoniale) sia inammissibili (avendo la Corte valutato sia la detta prova testimoniale che, unitamente a questa, la prova documentale, dandone adeguato conto in motivazione). A quest’ultimo riguardo, è sufficiente ribadire che l’esame dei documenti esibiti e delle deposizioni dei testimoni, nonchè la valutazione dei documenti e delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (Cass. n. 17097/10).

Anche il terzo ed il quarto motivo di ricorso vanno perciò rigettati.

5.- Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo in favore del resistente A.

Non vi è luogo a provvedere sulle spese nei rapporti tra la ricorrente e l’intimata Al. poichè questa non si è difesa.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione che liquida, in favore del resistente A.D., nella somma di Euro 3.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori come per legge.

Così deciso in Roma, il 5 aprile 2013.

Depositato in Cancelleria il 16 maggio 2013

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