Ai fini della validità del licenziamento intimato per ragioni disciplinari non è necessaria la previa affissione del codice disciplinare, in presenza di violazioni di norme di legge e comunque di doveri fondamentali del lavoratore, riconoscibili come tali senza necessità di specifica previsione. Qualora invece le condotte contestate vengano ad essere in contrasto con mere prassi, non integranti usi normativi o negoziali, variabili nel tempo in ragione di svariati fattori, diviene indispensabile la conoscibilità delle relative condotte ritenute illegittime dal datore di lavoro, mediante l’affissione del codice disciplinare.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. Lavoro, con la sentenza n. 22626 depositata il 3 ottobre 2013.
Il fatto processuale. Il Tribunale del lavoro di Ascoli Piceno, chiamato a pronunciarsi sulla legittimità di un licenziamento irrogato per giusta causa dalla Cassa di Risparmio di Fabriano e Cupramontana spa al suo direttore di filiale, con sentenza n. 740/10 del 13 ottobre 2013, decideva in accoglimento della domanda del lavoratore, dichiarando illegittimo il licenziamento. Proposto appello da parte della banca, la Corte, in riforma della sentenza di primo grado, rigettava le domande del dipendente, condannandolo alla restituzione delle somme nelle more già percepite, € 209.621,03, oltre interessi legali dalla ricezione del pagamento di dette somme. Proponeva ricorso per Cassazione il direttore licenziato.
Il codice disciplinare.
Secondo la giurisprudenza prevalente, l’esercizio del potere disciplinare è subordinato anzitutto alla predisposizione del codice disciplinare, ovverosia del codice in cui sono indicate le norme procedurali e sostanziali di cui il datore di lavoro intende avvalersi per reprimere i comportamenti dei lavoratori contrari alla disciplina aziendale. La mancata pubblicità del codice disciplinare aziendale, nei modi indicati dall art. 7 della legge n. 300/70 (affissione in luogo accessibile a tutti i lavoratori), preclude l’esercizio del potere disciplinare e determina la nullità della sanzione applicata. Al riguardo, la prevalente giurisprudenza ritiene che l’obbligo di far conoscere ai dipendenti il codice disciplinare, mediante l’affissione in luogo accessibile a tutti i dipendenti, sussiste non solo quando il predetto codice sia frutto di unilaterale determinazione del datore di lavoro, ma anche quando esso consista nella mera recezione delle norme contrattuali collettive ovvero nella fissazione di regole accessorie e integrative rispetto a quelle poste dalla normativa disciplinare collettiva.
Il principio.
In presenza di violazioni di norme di legge o di doveri fondamentali del lavoratore, riconoscibili senza necessità di alcuna specifica previsione, non è necessaria la previa affissione del codice disciplinare in azienda – Cass. n. 14997 del 2010. Qualora invece le condotte contestate vengano ad essere in contrasto con mere prassi o regole interne variabili nel tempo diviene indispensabile la conoscibilità delle relative condotte ritenute illegittime dal datore di lavoro, mediante l’affissione del codice disciplinare.
Il caso in specie.
In applicazione del suddetto principio, gli Ermellini di P.zza Cavour hanno osservato che alcune condotte contestate al direttore di filiale, connesse alle direttive interne dell’azienda, ad es. riguardo ai termini di valutazione del rischio di illiquidità, possono integrare o collidere con mere prassi, non integranti usi normativi o negoziali, variabili nel tempo in ragione di congiunture economiche e di mercato, assunte dall’Istituto di credito, con la conseguente necessità della conoscibilità delle relative condotte ritenute illegittime dal datore di lavoro, mediante l’affissione del codice disciplinare.
La Corte rileva dunque la illegittimità delle contestazioni relative a tutte quelle condotte non contrarie al c.d. minimo etico o a norme di rilevanza pena, mosse in assenza dell’affissione del codice disciplinare, cassa la sentenza rinviando alla Corte di Appello di Bologna al fine di qualificare e valutare se le restanti contestazioni mosse possano integrare o meno, di per sè, per la gravità dell’inadempimento, giusta causa di licenziamento.
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Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 11 luglio – 3 ottobre 2013, n. 22626
Presidente Lamorgese – Relatore Tricomi
Svolgimento del processo
1. La Corte d’Appello di Ancona, con la sentenza n. 602/11, decidendo sull’impugnazione proposta dalla Cassa di Risparmio di Fabriano e Cupramontana spa, nei confronti di C.G. , avverso la sentenza del Tribunale di Ascoli Piceno n. 740/10 del 13 ottobre 2010, in riforma della sentenza appellata, rigettava le domande proposte dal C. e condannava quest’ultimo alla restituzione, in favore della suddetta Cassa di Risparmio, di Euro 209.621,03, oltre interessi legali dalla ricezione del pagamento di dette somme. 2. Il C. , direttore di filiale, aveva impugnato dinanzi al Tribunale il licenziamento per giusta causa irrogato dalla Cassa di Risparmio. Detta impugnazione era stata accolta dal Tribunale. 3. Per la cassazione della sentenza resa in grado di appello ricorre C.G. prospettando sei motivi di ricorso. 4. Resiste con controricorso la Cassa di Risparmio di Fabriano e Cupramontana spa. 5. Il ricorrente ha depositato memoria in prossimità dell’udienza.
Motivi della decisione
1. Con la prima censura è dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 7 della legge n. 300 del 1970, mancanza o insufficienza e contraddittorietà della motivazione sul punto determinante del rispetto delle garanzie formali e del diritto di difesa nel procedimento disciplinare, in relazione ai numeri 3 e 5 dell’art. 360 cpc. 2. Con il secondo motivo di ricorso è prospettata violazione e falsa applicazione dell’art. 112 cpc, degli artt. 2730, 2734 e 2735 cc, erronea ed illegittima valutazione delle risultanze probatorie, motivazione mancante illogica ed errata, omesso esame di punti decisivi della controversia, in relazione ai numeri 3 e 5 dell’art. 360 cpc. Il motivo verte sul rilievo attribuito dalla Corte d’Appello alle affermazioni contenute nella lettera di giustificazione. 3. Con il terzo motivo di ricorso, il C. censura la sentenza per la violazione e falsa applicazione dell’art. 116 cpc, dell’art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale, erronea ed illegittima valutazione delle risultanze probatorie, motivazione mancante, illogica ed errata, omesso esame di punti decisivi della controversia, in relazione ai numeri 3 e 5 dell’art. 360 cpc. Con la suddetta censura, il ricorrente deduce che gran parte degli elementi di fatto, sui quali la Corte d’Appello fonda il giudizio di gravità del comportamento di esso C. , non risulterebbe dagli atti processuali, di segno diverso. Non risulterebbe il superamento della soglia di competenza per la negoziazione di assegni; non vi sarebbe callidità nell’avere negoziato, nella stessa giornata, più assegni per lo stesso cliente, singolarmente di importo inferiore; esso ricorrente non avrebbe riconosciuto di avere assunto il rischio di illiquidità; non risulterebbe che vi fossero stati specifici richiami al rispetto delle procedure, non risulterebbe la rilevanza anche esterna del comportamento addebitato ad esso C. . 4. Con il quarto motivo di ricorso è dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1175 e 1375 cc, mancanza o insufficienza e contraddittorietà della motivazione in ordine al punto/fatto controverso e decisivo delle ragioni e delle caratteristiche e, quindi, di una gravità del comportamento del C. legittimamente licenziato, in relazione ai numeri 3 e 5 dell’art. 360 cpc. Il ricorrente censura la sentenza di appello per non aver tenuto conto del fatto essenziale, introdotto nel giudizio sin dal primo grado, costituito dalla sussistenza e rilevanza della buona fede del dipendente e dalla mancanza di danno o grave rischio di danno per l’Istituto bancario. 5. Con il quinto motivo di ricorso è prospettata violazione e falsa applicazione dell’art. 2106 cc, mancanza o insufficienza della motivazione sul punto determinante della congruità della estrema sanzione espulsiva, in relazione ai numeri 3 e 5 dell’art. 360 cpc. Ad avviso di esso ricorrente, il licenziamento avrebbe costituito sanzione eccessiva, gravemente sproporzionata rispetto alla reale portata delle infrazioni ascritte e commesse dal ricorrente. 6. Con il sesto motivo di ricorso è dedotta violazione e falsa applicazione dell’art. 219 cc, mancanza o insufficiente e contraddittoria motivazione sul punto decisivo determinante della individuazione della nozione di giusta causa, in relazione ai numeri 3 e 5 dell’art. 360 cpc. La sentenza di appello, nello specificare la clausola generale della giusta causa di licenziamento, ha ritenuto che possa integrare la stessa il solo consentire l’emissione di assegni di giro; ad avviso del ricorrente, se anche ciò fosse avvenuto, in misura superiore alla soglia deliberativa, lo sforamento sarebbe stato minimo. Una tale specificazione del parametro normativo, sarebbe avulsa dalla realtà sociale e censurabile in sede di legittimità per l’incoerenza di tale nozione astratta con gli standards conformi ai valori dell’ordinamento esistenti nella realtà sociale. 7. Così ricapitolate, in sintesi, le censure, può passarsi all’esame del primo motivo. Espone il C. che, come già dedotto nel ricorso di primo grado e riproposto in appello, non era stato provato che nel luogo di lavoro di esso ricorrente fosse affisso, in luogo accessibile a tutti, il codice disciplinare. Pertanto, censura la statuizione della Corte d’Appello secondo la quale detta affissione sarebbe inconferente, in quanto gli addebiti concernono la violazione dei doveri fondamentali che governano l’operatività della direzione di filiale e la violazione di normative statuali. Il principio a cui va ricondotta tale affermazione, infatti, non sarebbe applicabile nel caso di specie, in cui le violazioni attengono solo a regole interne della banca e non a norme di legge, che la sentenza impugnata non indica, con la conseguenza della necessari affissione del codice di disciplina. La contestazione sarebbe, altresì tardiva, in quanto intervenuta il 1 aprile 2009 per fatti che la Cassa di Risparmio conosceva sin dal 2 marzo 2009. Il licenziamento sarebbe altresì nullo e ingiustificato perché, con lettera A/R del 5/11 maggio 2009, esso ricorrente aveva formulato alla Cassa la richiesta di avere copia di tutti gli atti relativi alla ispezione eseguita a proprio carico il 2 marzo 2009, riservandosi all’esito ogni ulteriore eccezione e contestazione. La Corte d’Appello aveva motivato il rigetto dell’eccezione in ragione della consapevolezza delle risultanze ispettive, come risultante dalle giustificazione, con ciò non considerando che, solo con una compiuta conoscenza degli atti, esso ricorrente avrebbe potuto verificare in modo completo le deduzioni della Cassa. La contestazione sarebbe, altresì nulla, in quanto in più punti generica ed inidonea, pertanto, a consentire al lavoratore di esplicare il proprio diritto di difesa. 7.1. Preliminarmente va disattesa l’eccezione formulata dalla Cassa dell’abbandono della domanda di illegittimità del licenziamento per la mancata affissione del codice disciplinare, in quanto tale doglianza non sarebbe stata riproposta nelle conclusioni rese nel giudizio di appello. Ed infatti, come questa Corte ha già avuto modo di affermare, la mancata riproposizione, in sede di precisazione delle conclusioni definitive, soprattutto allorché queste siano prospettate in modo specifico, di domande o eccezioni precedentemente formulate implica normalmente una presunzione di abbandono o di rinuncia alle stesse, detta presunzione, fondandosi sull’interpretazione della volontà della parte, deve essere esclusa qualora il giudice del merito, cui spetta il compito di interpretare nella loro esatta portata le conclusioni, le richieste e le deduzioni delle parti, ravvisi elementi sufficienti, o dalla complessiva condotta processuale della parte o dalla stretta connessione della domanda non riproposta con quelle specificamente formulate, per ritenere che, nonostante la materiale omissione, la parte abbia inteso insistere nelle istanze già avanzate (Cass., n. 4794 del 2006), circostanza che nella specie è avvenuta avendo il giudice di appello statuito in merito al suddetto motivo di impugnazione del licenziamento, ritenendolo, quindi, non rinunciato. 7.2. La prima censura, articolata in più motivi è fondata quanto al primo, relativo alla mancata affissione del codice disciplinare e deve essere accolta. Il giudice di secondo grado, pur a fronte della pluralità e diversità delle contestazioni mosse al C. (cambio assegni, superamento della soglia di competenza deliberativa, operatività su posizioni incagliate con rischio d’illiquidità, reiterazione delle violazioni segnalate nel precedente accertamento ispettivo dell’aprile 2008 su posizioni nominativamente indicate, acquisizione di documentazione e distinte di cassa con firme non conformi allo specimen, forzature per partite illiquide, omessa vigilanza sulla correttezza delle registrazioni “antiriciclaggio” da parte di ben individuati sottoposti), si è limitato ad affermare che gli addebiti concernevano la violazione dei doveri fondamentali che governano l’operatività della direzione di filiale e addirittura la violazione di normative statali. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, ai fini della validità del licenziamento intimato per ragioni disciplinari non è necessaria la previa affissione del codice disciplinare, in presenza della violazione di norme di legge e comunque di doveri fondamentali del lavoratore, riconoscibili come tali senza necessità di specifica previsione (Cass., n. 14997 del 2010). Ritiene questa Corte, in applicazione del suddetto principio, al quale si intende dare continuità, che mentre alcune condotte del direttore di filiale, quali l’accettazione distinte e documenti con firme non corrispondenti al c.d. specimen, o la mancata effettuazione delle registrazioni antiriciclaggio, ex sé, contrastano con il c.d. minimo etico o con norme penali, altre, come nel caso di specie, connesse alle possibili modalità di applicazione di alcuni istituti bancari, ad es. con riguardo ai termini di valutazione del rischio di illiquidità, possono integrare o collidere con mere prassi, non integranti usi normativi o negoziali, variabili nel tempo in ragione di congiunture economiche e di mercato, assunte dall’Istituto di credito, con la conseguente necessità della conoscibilità delle relative condotte ritenute illegittime dal datore di lavoro, mediante l’affissione del codice disciplinare. 7.3. Attesa la illegittimità delle contestazioni relative a condotte non contrarie al c.d. minimo etico o a norme di rilevanza pena, mosse pur in assenza dell’affissione del codice disciplinare, spetta, quindi, al giudice di merito qualificare le stesse, e valutare, se le restanti contestazioni integrino o meno, di per sé, per la gravità dell’inadempimento, giusta causa di licenziamento. 8. All’accoglimento del primo motivo di ricorso, segue l’assorbimento degli ulteriori motivi di ricorso. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia anche per le spese del presente giudizio alla Corte d’Appello di Bologna.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, assorbiti gli altri. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia anche per le spese del presente giudizio alla Corte d’Appello di Bologna.
Avvocato Matteo Moscioni, con studio legale in Viterbo, si occupa prevalentemente di Diritto del Lavoro, Sindacale e Relazioni Industriali.