La sentenza n. 10388/13 si occupa di un caso di stalking, nel quale però le condotte persecutorie sono iniziate prima dell’entrata in vigore dell’art. 612 bis c.p..
Come noto, infatti, la tipicità della condotta relativa a tale fattispecie criminosa è caratterizzata dalla reiterazione di comportamenti “tipici, sia omogenei, sia eterogenei, che si succedano nel tempo”.
Quid iuris, però, se le condotte in questione sono iniziate prima dell’entrata in vigore del D.L. n. 11/09?
La Suprema Corte sottolinea come l’irrilevanza delle condotte antecedenti non possa riverberarsi su quelle successive, degradandole quindi a post factum non punibile, quando le stesse siano di per sé idonee a generare “un perdurante e grave stato di ansia o di paura”, anche a causa del “pregresso affievolimento delle capacità di resistenza e di autodifesa”.
Queste le parole dei Giudici di legittimità: “… le radici storiche e l’inizio della condotta di persecuzione in tempo antecedente alla configurazione normativa del reato di stalking non possono proiettare la loro irrilevanza penale su atti successivi – degradandoli a post factum non punibile – del frazionato comportamento invasivo, in tutta la sua evoluzione (antecedente e successiva all’entrata in vigore della norma incriminatrice), quando sia accertata la reiterazione di atti di aggressione e di molestia, idonei – anche a causa del pregresso affievolimento delle capacità di resistenza e di autodifesa – a creare nella vittima lo status di persona lesa nella propria libertà morale; quando sia accertata, quindi, la sussistenza – in data successiva all’entrata in vigore del D.L. n. 11/09 – di atti capaci di causare l’evento di danno, previsto e punito dall’art. 612 bis c.p.”.
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE V PENALE
Sentenza 6 novembre 2012 – 6 marzo 2013, n. 10388
(Presidente Ferrua – Relatore Bevere)
Fatto e diritto
Con sentenza 20.9.2010, la corte di appello di Brescia, in parziale riforma della sentenza, emessa il 14.12.09, ex art. 442 cpp, dal tribunale di Brescia, ha concesso a D.F. il beneficio della non menzione; ha confermato la condanna alla pena di 6 mesi di reclusione, al risarcimento dei danni, alla rifusione delle spese in favore della parte civile, perché ritenuto colpevole del reato ex art. 612 bis c.p. in danno della moglie M.C., con la quale era in corso la causa di separazione.
Nell’interesse del D. è stato presentato ricorso per i seguenti motivi:
1. violazione di legge in riferimento all’art. 612 bis c.p.: il momento consumativo del reato contestato è anteriore alla data di vigenza della nuova ipotesi di reato (introdotta con d.l. 23.2.2009 n. 11, conv. in L. 23.4.2009 n. 38). Trattasi di reato di evento, rappresentato dall’insorgenza del perdurante e grave stato di ansia e di paura, nonché di un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto. Pertanto, i giudici,per giungere ad affermare la responsabilità del ricorrente, avrebbero dovuto accertare se questa condizione psicologica si fosse concretizzata successivamente al (omissis) o se questo stato di alterazione, sorto anteriormente a questa data, fosse risultato aggravato o se il timore per l’incolumità di un congiunto si fosse esteso ad altra persona.
Secondo il ricorrente è errato il percorso motivazionale del giudice d’appello, laddove, pur convenendo sull’insorgenza dello stato di alterazione della donna sin dal …, ha concluso con la sussistenza del reato, in quanto, in epoca successiva al (omissis), sono state consumate nuove-anche se meno gravi azioni di disturbo. Queste azioni, però, non sono idonee a realizzare nuova consumazione del reato successiva all’entrata in vigore del nuovo precetto normativo;
2. violazione di legge in riferimento all’art. 53 L.689/81: il giudice di appello ha rigettato la richiesta di conversione della pena detentiva, in ragione della gravità dei fatti e della misura mite della sanzione: trattasi di un’errata interpretazione della legge, che non condiziona la conversione ad un giudizio di meritevolezza, ma ad una preliminare valutazione della capacità del detenuto a soddisfare la sanzione pecuniaria.
Il ricorso non merita accoglimento.
Il ricorrente con le sue critiche ripropone il problema del tempus regit actum, che, a sua volta, coinvolge il tema della natura e della dimensione della condotta e il tema dell’evento del reato in esame.
È stato correttamente rilevato che la tipicità delle condotte persecutorie è caratterizzata, per espressa volontà del legislatore, dalla loro reiterazione. Per la sussistenza del reato è dunque necessaria la realizzazione di una condotta frazionata in una pluralità di comportamenti tipici, sia omogenei, sia eterogenei, che si succedano nel tempo. Solo con la reiterazione, esplicitamente richiesta dal legislatore, di singoli episodi – che, in via esemplificativa, possono essere di ingiuria, minaccia, lesione, violenza privata, molestia – è legittima una contestazione che vada al di là delle tradizionali incriminazioni, previste, rispettivamente, dagli artt. 594, 612, 582, 610, 660 c.p. Correttamente è ritenuto in dottrina che, perché si applichi la nuova norma, non basta che sotto la sua vigenza sia stato compiuto l’ultimo atto, ma occorre che tale atto sia preceduto da altri comportamenti tipici ugualmente compiuti sotto la vigenza della nuova norma incriminatrice. Nel caso in esame le azioni contenute, nel capo di imputazione e risultanti commesse – in base all’incontrastata ricostruzione effettuata dai giudici di merito – nel (omissis) (sfociato nell’arresto dell’imputato) sono da qualificare come comportamenti tipici (molestie, aggressioni fisiche e minacce), complessivamente rilevanti a norma dell’art. 612 bis c.p. Da questa condotta è stata causato l’evento indicato nel capo di imputazione e ricostruito in base alla razionale valutazione dei giudici di merito: un regime di vita ossessivo e tale da ingenerare nella donna un grave stato di ansia e di paura, nonché fondati timori per l’incolumità fisica propria e del figlio, tali da costringerla ad alterare le proprie abitudini di vita.
I giudici di merito, seguendo un iter argomentativo comune, hanno raggiunto un unico, organico e inscindibile accertamento di responsabilità del D., attraverso a) la puntuale ricostruzione, compiuta grazie a testimonianze dalla incontestabile credibilità, degli atti di minaccia e di molestia, poste in essere dal D., prima del febbraio 2009 e quindi antecedentemente all’entrata in vigore della norma suindicata;
b) la corretta considerazione che tali atti non possono rientrare nella condotta prevista e punita dall’art. 612 bis c.p., la cui introduzione nel vigente ordinamento giuridico è stata successiva ad essi;
c) le dichiarazioni della M., secondo cui da tali comportamenti del marito era derivata una situazione di ansia, di paura, di timore per la propria incolumità;
d) l’acquisizione dell’ordine di protezione, emesso il … dal giudice civile, senza scadenza, con il quale era stato imposto al D. l’allontanamento dall’abitazione familiare e il divieto di avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dalla moglie;
e) le dichiarazioni della medesima persona offesa e gli accertamenti della polizia giudiziaria, secondo cui – in violazione dell’ordine di protezione – nel (omissis) e l'(omissis) (data dell’arresto del D., dinanzi all’abitazione familiare, ad opera dei carabinieri) l’imputato aveva reiterato comportamenti di minaccia e di molestia (l’episodio del (omissis) ha indotto la donna a rinunciare a fare passeggiate in bicicletta; nell’ultimo episodio l’atteggiamento aggressivo del D. era stato indirizzato contro il proprio figlio, che aveva assunto una posizione di difesa della donna);
f) la corretta considerazione che questa condotta frazionata protrattasi nel (omissis) ha causato nella persona offesa il cumulativo stato d’ansia, di paura, di fondato timore per l’incolumità propria e del figlio, nonché il protrarsi del mutamento necessitato delle proprie abitudini di vita. Lo stato di alterazione e di turbamento psicologico e comportamentale della donna, pur non penalmente rilevante, in via autonoma, nella sua iniziale esistenza, ha acquistato, a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 7 del decreto legge 23.2.09, n. 11 (conv. in L. n.38/2009), una propria valenza offensiva, in virtù del suo perpetuarsi e radicarsi nella psiche, nei comportamenti quotidiani, nella libertà di autodeterminarsi nella scelta dei luoghi, dei comportanti, delle frequentazioni della donna. Il reato in esame si è perfezionato non nel momento in cui si è instaurata la condotta persecutoria della M., da parte del D. , ma nel momento in cui si è realizzata – con l’entrata in vigore della norma incriminatrice – la rilevanza giuridica, nell’esistenza psicologica e nella vita di relazione, del grave stato di ansia e di paura, nonché dei fondati timori per l’incolumità fisica propria e del figlio. Le radici storiche e l’inizio della condotta di persecuzione in tempo antecedente alla configurazione normativa del reato di stalking non possono proiettare la loro irrilevanza penale su atti successivi – degradandoli a post factum non punibile – del frazionato comportamento invasivo, in tutta la sua evoluzione (antecedente e successiva all’entrata in vigore della norma incriminatrice), quando sia accertata – come nel caso di specie – la reiterazione di atti di aggressione e di molestia, idonei – anche a causa del pregresso affievolimento delle capacità di resistenza e di autodifesa – a creare nella vittima lo status di persona lesa nella propria libertà morale; quando sia accertata quindi la sussistenza – in data successiva all’entrata in vigore del d.l. n. 11/09 – di atti capaci di causare l’evento di danno, previsto e punito dall’art. 612 bis c.p.
È infondato anche il motivo, con il quale è censurata la motivazione del rigetto della richiesta di conversione della pena detentiva in quella pecuniaria.
Coerentemente, a fronte del negativo giudizio sulla personalità e sulla capacità a delinquere del D., la corte ha negato la conversione della sanzione limitativa della libertà personale in esborso pecuniario, per garantire alla punizione inflitta dallo Stato una più consistente capacità di dissuasiva deterrenza.
Secondo un condivisibile orientamento interpretativo, il giudice di appello, nel corretto e insindacabile esercizio del potere discrezionale conferito dall’art. 53 della legge 689/81, è legittimato a respingere l’istanza di conversione della pena detentiva, in considerazione, da un lato, della gravità del fatto, e, dall’altro, del livello minimo della pena irrogata, che, a seguito della conversione degraderebbe il trattamento sanzionatorio a un livello di nessuna efficacia, sotto il profilo della proporzionalità tra male causato e punizione subita e sotto il profilo della finalità del recupero alla legalità del reo.
Il ricorso va quindi rigettato con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.