La Suprema Corte, con la pronuncia n. 788/12, si occupa di dirimere una quaestio iuris molto dibattuta in dottrina e giurisprudenza, e cioè quella relativa al dies a quo del termine prescrizionale nel caso di contratto di deposito bancario.
E.B., portatore del libretto bancario n. xxxxx, emesso il 12.12.67 dalla banca xxxxx ed intestato al padre defunto, cita in giudizio la banca S. s.p.a. per chiedere la condanna della stessa alla restituzione della somma di L. 6.954.973, risultante a saldo di tale libretto alla data dell’ultima operazione effettuata (12.1.68), maggiorata degli interessi legali anno per anno capitalizzati sino alla data della citazione e degli ulteriori interessi, anch’essi capitalizzati, dalla data della citazione al saldo.
In primo grado la domanda viene respinta dal giudice adito, il quale rileva: “che non vi erano elementi per ritenere che il libretto fosse un titolo pagabile al portatore; che, versandosi in tema di contratto di deposito bancario, la banca convenuta era divenuta proprietaria della somma ed era obbligata a restituirne la stessa quantità solo al depositante; che l’attore non aveva fornito prova di essere erede di G.B.; che, in ogni caso, avuto riguardo alla data in cui era stata eseguita l’ultima operazione, il diritto azionato era prescritto”.
In secondo grado l’attore riesce a ottenere la riforma della sentenza, così che la banca decide di proporre ricorso in Cassazione.
Il primo motivo del ricorso riguarda il fatto che l’attore, in primo grado, non ha dimostrato di essere erede di G.B., per cui tale prova non può essere ammessa in appello, per il noto regime delle preclusioni di cui all’art. 345 c.p.c..
Tale motivo viene però censurato dalla Suprema Corte, la quale invece sottolinea come la norma in questione consenta al giudice del gravame di ammettere tutti i mezzi di prova ritenuti necessari ai fini della decisione.
Tra l’altro l’orientamento in questione è stato cristallizzato dalla nota sentenza a Sezioni Unite, n. 8203/05, secondo cui “il giudice d’appello è abilitato ad ammettere le prove che ritenga indispensabili, nonostante le preclusioni già verificatesi in primo grado”.
Ma il motivo principale del ricorso è un altro e ha ad oggetto la presunta avvenuta prescrizione del diritto fatto valere: la Banca, infatti, rileva che la prescrizione del diritto del depositante ad ottenere la restituzione delle somme depositate decorre dal momento stesso del deposito, ovvero sin dal giorno della costituzione del rapporto, o da quello dell’ultima operazione compiuta, se il rapporto si è sviluppato attraverso accreditamenti e prelievi, e sostiene che il mancato esercizio di tale diritto dia immediatamente luogo allo stato di inerzia che, come noto, costituisce il presupposto della prescrizione.
La Suprema Corte, però, ritiene infondato anche tale motivo. Essa, infatti, sottolinea come il contratto di deposito bancario, disciplinato dall’art. 1834 c.c., si configuri quale tipico negozio di durata, “in cui la permanenza della somma presso la depositaria comporta la soddisfazione di entrambe le parti, ovvero quella della banca di gestire in operazioni finanziarie il risparmio raccolto e quella del cliente di essere remunerato di tale utilizzo attraverso gli interessi che gli vengono periodicamente accreditati”.
Perciò, se le parti non hanno previsto un termine di scadenza del contratto, la banca è obbligata alla restituzione a richiesta del depositante.
Prosegue la Corte rilevando che “l’esercizio di tale diritto si configura, dunque, quale condizione di esigibilità del credito, in difetto della quale permangono (in alternativa) il diritto del depositante a mantenere la disponibilità delle somme (a detto credito corrispondenti) presso la banca e l’obbligo della depositaria di conservarle a sua disposizione. Tanto, del resto, in coerenza con la natura del rapporto negoziale come sopra delineata, in cui la circostanza che il denaro sia lasciato presso la banca costituisce situazione corrispondente all’interesse delle parti, che integra da ambo i lati adempimento del contratto di durata”.
In conclusione, la condotta del depositante che, pur non compiendo ulteriori operazioni di deposito, non richiede la restituzione, non può essere considerata quale indice di inerzia rilevante ai fini della decorrenza della prescrizione.
In effetti, a ben vedere, omettendo di richiedere la restituzione, il depositante non fa altro che manifestare il suo contrapposto interesse al mantenimento in giacenza delle somme, ovvero ad esercitare una facoltà che ugualmente gli deriva dal contratto.
In alternativa, se la banca avesse voluto far decorrere il termine di prescrizione, avrebbe potuto manifestare la propria volontà di recedere dal rapporto, circostanza però non verificatasi nel caso di specie.
Vedi: Conti dormienti: la Banca deve avvertire il Cliente
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