La Suprema Corte, con la pronuncia n. 4959/12, si è occupata della qualificazione giuridica dei crediti degli Avvocati e della risarcibilità del danno da svalutazione monetaria.
Nello specifico, i Giudici di legittimità hanno precisato come il credito dell’avvocato per onorari professionali sia credito di valuta e non di valore, avendo per oggetto, fin dall’origine, il pagamento di una somma di denaro.
Pertanto, la sopravvenuta (ed eventuale) svalutazione monetaria non ne consente una rivalutazione d’ufficio, occorrendo una domanda del creditore di riconoscimento del maggior danno nei limiti previsti dall’art. 1224, secondo comma, c.c., con onere della prova a carico di quest’ultimo.
Contrariamente a quanto sostenuto nei gradi di merito, l’art. 429 c.p.c., come modificato dalla legge n. 533/1973 (il quale articolo, come noto, nell’ambito del rito del lavoro prevede la pronuncia d’ufficio, da parte del giudice, in ordine alla sussistenza del danno da svalutazione monetaria), si applica solo quando l’opera dell’avvocato si configuri come attività continuativa e coordinata tipica dei cosiddetti rapporti di “parasubordinazione” (sul punto, cfr. Cass. n. 11777/2005), circostanza non provata nel caso di specie.
Così conclude la Suprema Corte: “Avrebbe quindi il ricorrente potuto chiedere non la rivalutazione della somma ma il maggior danno da svalutazione sia con apposita domanda limitata al maggior danno sia, poi fornendo la prova almeno presuntiva di questo e cioè almeno del tasso del bot non superiore all’anno (sul punto, Cass. Sez. Unite, n. 19499/2008)”.
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SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE III CIVILE
Sentenza 27 gennaio – 28 marzo 2012, n. 4959
(Presidente Segreto – Relatore Musso)
Svolgimento del processo
Con citazione notificata in data 29.3.99, N.T. conveniva innanzi al Tribunale di Vigevano l’avv. M.I. assumendo: che aveva consegnato a quest’ultimo nel dicembre 1985, la somma di £ 142.533.666 affinché pagasse un debito da esso istante contratto, quale fideiussore della fallita I. s.r.l., con la Cassa di Risparmio di Vigevano; che detto avvocato veniva surrogato dalla Cassa nei suoi diritti nei confronti del Fallimento; che sempre l’avv. M. non lo aveva successivamente informato del pagamento della somma di L. 114.260.000, effettuato dal Fallimento in data XXXXXXX; che, a seguito di notizie presso il Tribunale, aveva accertato l’avvenuto pagamento; che, pertanto aveva richiesto la suddetta somma all’avv. M., senza avere alcun riscontro in proposito. Ciò premesso, l’attore chiedeva che il Tribunale condannasse il convenuto al pagamento della somma di L. 114.260.000, con interessi e rivalutazione.
Il convenuto si costituiva ritualmente in giudizio, contestando le pretese avversarie e proponendo, sua volta, domanda riconvenzionale, assumendo: che nulla era dovuto all’attore, ben a conoscenza, sin dal 1991, anche attraverso il suo commercialista, della somma incassata dal Fallimento; che invece, il convenuto stesso andava creditore, nei confronti dell’attore, della somma di L. 66.400.000, versata in varie riprese negli anni 1988/1989 (come da scontrini prodotti), nonché della somma di L. 78.864.000 per prestazioni professionali, di cui produceva le relative parcelle.
L’adito Tribunale, con sentenza n. 142/2005, accoglieva la domanda principale dell’attore e anche
la domanda riconvenzionale del convenuto; pertanto condannava il convenuto a pagare Euro 59.010,37, oltre rivalutazione ed interesse e condannava l’attore al pagamento di Euro 40.729,86, oltre rivalutazione ed interessi.
A seguito degli appelli, in via principale da parte del M. e in via incidentale da parte del N., la Corte d’Appello di Milano, con la decisione in esame depositata in data 11.2.2010, rigettava il gravame principale e in accoglimento dell’incidentale condannava il N. al pagamento in favore del M. della minor somma di Euro 7.290,45.
Ricorre per cassazione il M. con cinque motivi, resiste con controricorso il N. Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Motivi della decisione
Con il primo motivo di ricorso si deduce violazione degli artt. 1742 c.c., 9 L. n. 204/85, 1703, 1705 c.c. e 82 e 83 c.p.c., nonché difetto di motivazione. Si afferma in proposito che non vi è alcuna prova che il N. avesse il potere di rappresentare la società A. né quale rappresentante né quale agente.
Con il secondo motivo si deduce violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. e relativo difetto di motivazione, non essendovi titolo per la richiesta condanna risarcitoria in danno del N. in mancanza di prova.
Con il terzo motivo si deduce violazione dell’art. 1224, secondo comma c.c., trattandosi nel caso di specie di un debito di valuta per cui detto danno ex art. 1224 c.c., va riconosciuto nei termini di cui alla giurisprudenza di legittimità.
Con il quarto motivo si deduce violazione degli artt. 1813 e 2033 c.c. e difetto di motivazione in relazione ai documenti prodotti dal M.
Con il quinto motivo si deduce violazione degli artt. 1703, 1201, 2734 c.c. e difetto di motivazione.
Nella memoria del ricorrente si eccepisce la inammissibilità del controricorso per nullità della notifica effettuata al ricorrente da Ufficiale Giudiziario incompetente.
Preliminarmente deve rilevarsi che infondata è l’eccezione di inammissibilità del controricorso: in proposito, si richiama quanto già statuito da questa Corte (tra le altre, n. 11524/1997), secondo cui l’inosservanza della disposizione di cui all’art. 370 c.p.c. secondo la quale il controricorso deve essere notificato al domicilio eletto dal ricorrente, risulta sanata se la notifica, non effettuata nel luogo predetto, abbia raggiunto ugualmente il suo scopo, che è quello di portare l’atto a conoscenza del destinatario; ciò che è accaduto nel caso di specie.
Fondato è il primo motivo di ricorso. Deve in proposito ribadirsi che, come statuito da questa Corte con indirizzo giurisprudenziale consolidato (tra le altre, Cass. nn. 4489/2010; 24010/2004), ai fini di individuare il soggetto obbligato a corrispondere il compenso professionale al difensore, occorre distinguere tra rapporto endoprocessuale nascente dal rilascio della procura ad litem e rapporto che si instaura tra il professionista incaricato ed il soggetto che ha conferito l’incarico, il quale può essere anche diverso da colui che ha rilasciato la procura. In tal caso chi agisce per il conseguimento del compenso ha l’onere di provare il conferimento dell’incarico da parte del terzo, dovendosi, in difetto, presumere che il cliente sia colui che ha rilasciato la procura.
Pertanto censurabile è la decisione impugnata sul punto, là dove non tiene conto di detto principio in tema di onere probatorio, limitandosi ad affermare che “l’avere M. effettuato un pagamento dovuto da N. con denaro da questi affidatogli a tale fine e l’essersi M. surrogato per conto di lui implica invece un rapporto di mandato, cui inerisce l’obbligo di rendiconto ex. art. 1713 c.c. (in difetto di prova contraria, mai articolata sul punto specifico di una supposta deroga all’obbligo di rendiconto) e il conseguente obbligo di riversare al mandante le somme che il mandatario, esercitando la surroga in nome proprio ma per conto del mandante, abbia incassato”.
Inammissibile è poi il secondo motivo, in ordine alla non debenza della somma richiesta per l’intervento nella procedura di opposizione, con esito infruttuoso, in quanto la Corte d’Appello ha accertato, con indagine in fatto non ulteriormente sindacabile nella presente sede di legittimità, che il mandato era stato rilasciato per opposizione al decreto ingiuntivo.
Infondato è il terzo motivo riguardante la rivalutazione sugli onorari: il credito dell’avvocato per onorari professionali è credito di valuta e non di valore avendo per oggetto, fin dall’origine, il pagamento di una somma di denaro. La sopravvenuta svalutazione monetaria non ne consente una rivalutazione d’ufficio, occorrendo una domanda del creditore di riconoscimento del maggior danno nei limiti previsti dall’art. 1224, comma secondo, con. civ. ed il soddisfacimento del relativo onere probatorio ed essendo applicabile l’art. 429 cod. proc. civ., come modificato dalla legge n. 533/1973, solo quando l’opera dell’avvocato si configuri come attività continuativa e coordinata tipica dei cosiddetti rapporti di “parasubordinazione” (sul punto, Cass. n. 11777/2005). Avrebbe quindi il ricorrente potuto chiedere non la rivalutazione della somma ma il maggior danno da svalutazione sia con apposita domanda limitata al maggior danno sia, poi fornendo la prova almeno presuntiva di questo e cioè almeno del tasso del bot non superiore all’anno (sul punto, Cass. Sez. Unite, n. 19499/2008).
Inammissibili infine sono il quarto e il quinto motivo di ricorso perché attinenti a questioni di merito.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo di ricorso e rigetta gli altri. Cassa la decisione impugnata, in relazione al motivo accolto, e rinvia, anche per le spese della presente fase, alla Corte d’Appello di Milano, in diversa composizione.
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