“Nella ipotesi in cui il lavoratore chieda il risarcimento del danno patito alla propria integrità psico-fisica in conseguenza di una pluralità di comportamenti del datore di lavoro e dei colleghi di lavoro di natura asseritamente vessatoria, il Giudice del merito, pur nella accertata insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare tutti gli episodi addotti dall’interessato e quindi della configurabilità del mobbing, è tenuto a valutare se alcuni dei comportamenti denunciati – esaminati singolarmente ma sempre in relazione agli altri – pur non essendo accomunati dal medesimo fine persecutorio, possano essere considerati vessatori e mortificanti per il lavoratore e, come tali, siano ascrivibili alla responsabilità del datore di lavoro che possa essere chiamato a risponderne, ovviamente nei soli limiti dei danni a lui imputabili”.
Questo il principio di diritto affermato dalla Suprema Corte con la pronuncia n. 18927/12 in materia di mobbing sul luogo di lavoro.
Nel caso di specie, la controversia ha ad oggetto la domanda di V. diretta alla condanna di A.C., nella qualità di titolare della farmacia XXX, al risarcimento del danno esistenziale e del danno derivante dall’anticipato pensionamento della ricorrente e di ogni altro danno patito in conseguenza delle azioni vessatorie poste in essere dai dipendenti e/o dai titolari della suindicata farmacia, le quali condotte avrebbero portato l’istante a tentare il suicidio.
I Giudici di legittimità accolgono il ricorso della lavoratrice, ritenendo che la Corte d’Appello avrebbe dovuto valutare se “alcuni dei comportamenti denunciati – esaminati singolarmente ma sempre in relazione agli altri – pur non essendo accomunati dal medesimo fine persecutorio, possano essere considerati vessatori e mortificanti per la ricorrente e, come tali, siano ascrivibili alla responsabilità del datore di lavoro che possa essere chiamato a risponderne, ovviamente nei soli limiti dei danni a lui imputabili”.
Tutto ciò, però, precisa la Corte, da una parte non implica necessariamente che il singolo comportamento vessatorio costituisca causa o concausa dello stato depressivo (culminato, nel caso di specie, in un tentativo si suicidio), dall’altra nemmeno esclude a priori la configurazione di un danno giuridicamente apprezzabile.
In altre parole, spetta al Giudicante, di volta in volta, effettuare un giudizio sulle singole condotte, al fine di verificare la sussistenza di ipotesi di responsabilità.
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Sentenza 10 ottobre – 5 novembre 2012, n. 18927
(Presidente Lamorgese – Relatore Tria)
Svolgimento del processo
1. – La sentenza attualmente impugnata rigetta l’appello di L.V. avverso la sentenza del Tribunale di Napoli che, a sua volta, ha respinto la domanda della V. diretta alla condanna di A.C., nella qualità di titolare della farmacia “Santa Teresa”, al risarcimento del danno esistenziale e del danno derivante dall’anticipato pensionamento della ricorrente e di ogni altro danno patito in conseguenza delle azioni vessatorie poste in essere dai dipendenti e/o dai titolari della suindicata farmacia.
La Corte d’appello di Napoli, per quel che qui interessa, precisa che:
a) il motivo di appello con il quale la ricorrente contesta la decisione del Tribunale di non ammettere il giuramento decisorio è infondato, anche se effettivamente nella sentenza di primo grado manca la motivazione sul punto;
b) ad integrazione della sentenza va precisato che tutte e 24 le circostanze dedotte sul foglio di deferimento del giuramento decisorio sono assolutamente inidonee ad essere considerate sufficienti all’accoglimento o al rigetto della domanda giudiziale; salvo restando che alcune di esse sono provate per tabulas o incontestate;
c) pertanto va esclusa l’ammissibilità del mezzo istruttorio, visto che tutte le altre circostanze dedotte non potrebbero mai portare alla prova della sussistenza di un intento persecutorio idoneo a unificare i singoli episodi tra loro e quindi ad affermare la sussistenza del mobbing e del nesso causale tra la volontà datoriale e la depressione della dipendente culminata nel tentativo di suicidio;
d) invero i suddetti episodi, alcuni dei quali confermati dall’istruttoria testimoniale svolta, appaiono inidonei ad essere unificati da una precisa strategia persecutoria posta in essere dai titolari della farmacia per indurre la lavoratrice alle dimissioni;
e) in particolare l’unico atto, in ipotesi, illegittimo compiuto dal C. nei confronti della lavoratrice – cioè l’invio della lettera di licenziamento – è stato da questi spontaneamente ritirato dopo la lettera di risposta della V. e il rapporto di lavoro è regolarmente proseguito con l’impresa subentrante;
f) da quel momento in poi l’unico elemento problematico emerso è il rapporto difficile tra la ricorrente e la collega C., mentre nessuno dei testi ha confermato che la V. sia stata oggetto di continui rimproveri;
g) inoltre, gli episodi riferiti dalla V. con riguardo al C. e al G. – riprodotti nell’atto d’appello nella versione originaria, senza tenere conto delle risultanze della prova testimoniale – non sono tali da ingenerare neppure il dubbio dell’intento persecutorio;
h) ne deriva che il mobbing è del tutto insussistente, mentre la depressione e il drammatico tentativo di suicidio sono da collegare alla particolare risposta soggettiva della ricorrente rispetto all’utilizzazione del nuovo sistema informatizzato di organizzazione del lavoro e all’ingresso di nuovi collaboratori nella farmacia, conseguenti all’intervenuto cambio di gestione.
2. – Il ricorso di L.V. domanda la cassazione della sentenza per due motivi; resiste, con controricorso, A.C.
La ricorrente deposita anche memoria ex art. 378 cod. proc. civ.
Motivi della decisione
I – Sintesi dei motivi di ricorso
1. – Con il primo motivo si denunciano: a) in relazione all’art. 360, n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 2736 cod. civ. e dell’art. 116 cod. proc. civ.; b) in relazione all’art. 360, n. 5, cod. proc. civ., omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione e omesso esame di un punto decisivo della controversia.
Si rileva che la Corte d’appello non ha accolto l’istanza della ricorrente di deferimento ad A.C. del giuramento decisorio sui fatti posti a fondamento della propria domanda giudiziale, riproposta in sede di gravame dopo analoga deliberazione del Tribunale.
Si sottolinea che, diversamente da quanto affermato dalla Corte partenopea il giuramento decisorio, quale prova legale, è sempre ammissibile, anche quando si riferisca a fatti già accertati o esclusi dalle risultanze di causa.
Si soggiunge che la motivazione posta a base della decisione contestata è palesemente contraddittoria e illogica. Infatti, la Corte territoriale non ha ammesso il giuramento decisorio perché riguardante circostanze di fatto non idonee a decidere la controversia, ma poi sulle stesse circostanze ha basato la prova testimoniale nonché la pronuncia di insussistenza del comportamento vessatorio e mobbizzante di cui la ricorrente lamentava di essere stata vittima.
2. – Con il secondo motivo si denunciano: a) in relazione all’art. 360, n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 2, 32 e 41, secondo comma, Cost., dell’art. 2087 cod. civ., della legge n. 300 del 1970, del d.lgs. n. 626 del 1994; b) in relazione all’art. 360, n. 5, cod. proc. civ., omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione e omesso esame di un punto decisivo della controversia.
Si sottolinea che il datore di lavoro ha l’obbligo di tutelare l’integrità psico-fisica del lavoratore, come prescritto dall’art. 2087 cod. civ., dall’art. 9 della legge n. 300 del 1970 e dal d.lgs. n. 626 del 2004, in attuazione dei principi di cui agli artt. 2, 32 e 41 della Costituzione.
In questo quadro la sentenza impugnata viene considerata illegittima in quanto in essa, in modo palesemente contraddittorio e illogico, la Corte partenopea, dopo aver affermato che la quasi totalità dei fatti storici posti a fondamento della domanda della ricorrente risultano non contestati o documentalmente provati – e che tali sono i ripetuti comportamenti vessatori del datore di lavoro – ha rigettato tutte le richieste della V. sull’assunto, enunciato ma non motivato, secondo cui i fatti stessi non avrebbero causato danni alla salute della lavoratrice.
II – Esame delle censure
3.- Il primo motivo è inammissibile.
In base al principio di specificità dei motivi dei ricorso per cassazione – da intendere alla luce del canone generale “della strumentalità delle forme processuali” – il ricorrente che sostenga che il Giudice del merito ha errato nel non ammettere il deferimento del giuramento decisorio, ha l’onere di indicare, specificatamente, il contenuto della formula del giuramento stesso, al fine, di consentire la valutazione delle questioni da risolvere e della decisività dello mezzo istruttorio, dato che questo controllo, deve poter essere compiuto dalla Corte di cassazione sulla base delle deduzioni contenute nel ricorso, a pena di inammissibilità come previsto dall’art. 366, primo comma, n. 6, cod. proc. civ. (Cass. 26 aprile 2002, n. 6078; Cass. 17 novembre 2005, n. 23286; Cass. 3 luglio 2001, n. 8998).
Nella specie tale principio non risulta essere stato rispettato in quanto la ricorrente non ha riprodotto nel ricorso il contenuto della formula del giuramento decisorio di cui si tratta.
Tanto basta per considerare il motivo inammissibile.
4. – Il secondo motivo è, invece, fondato.
4.1. – In base ad un consolidato e condiviso orientamento di questa Corte, nella disciplina del rapporto di lavoro, ove numerose disposizioni assicurano una tutela rafforzata alla persona del lavoratore con il riconoscimento di diritti oggetto di tutela costituzionale, il datore di lavoro non solo è contrattualmente obbligato a prestare una particolare protezione rivolta ad assicurare l’integrità fisica e psichica del lavoratore dipendente (ai sensi dell’art. 2087 cod. civ.), ma deve altresì rispettare il generale obbligo di neminem laedere e non deve tenere comportamenti che possano cagionare danni di natura non patrimoniale, configurabili ogni qual volta la condotta illecita del datore di lavoro abbia violato, in modo grave, i suddetti diritti.
Tali comportamenti, anche ove non siano determinati ex ante da norme di legge, sono suscettibili di tutela risarcitoria previa individuazione, caso per caso, da parte del giudice del merito, il quale, senza duplicare le voci del risarcimento (con l’attribuzione di nomi diversi a pregiudizi identici), è chiamato a discriminare i meri pregiudizi – concretizzatisi in disagi o lesioni di interessi privi di qualsiasi consistenza e gravità, come tali non risarcibili – dai danni che vanno invece risarciti (Cass. 12 maggio 2009, n. 10864; Cass. SU 22 febbraio 2010, n. 4063; Cass. 6 marzo 2006 n. 4774; Cass. 17 febbraio 2009 n. 3785).
Fra le situazioni potenzialmente dannose e non normativamente tipizzate rientra il mobbing che, secondo quanto affermato dalla Corte costituzionale e recepito dalla giurisprudenza di questa Corte, designa (essendo stato mutuato da una branca dell’etologia) un complesso fenomeno consistente in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all’obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo (vedi per tutte: Corte cost. sentenza n. 359 del 2003).
Ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo devono quindi ricorrere molteplici elementi: a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio – illeciti o anche leciti se considerati singolarmente – che, con intento vessatorio, siano stati posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; b) l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità; d) il suindicato elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi (vedi: Cass. 21 maggio 2011 n. 12048; Cass. 26/3/2010 n. 7382).
Alla base della responsabilità per mobbing lavorativo si pone normalmente l’art. 2087 cod. civ., che obbliga il datore di lavoro ad adottare le misure necessarie a tutelare l’integrità psico-fisica e la personalità morale del lavoratore, per garantirne la salute, la dignità e i diritti fondamentali, di cui agli artt. 2, 3 e 32 Cost.
D’altra parte, come risulta dalla stessa definizione del fenomeno, se anche le diverse condotte denunciate dal lavoratore non si ricompongano in un unicum e non risultano, pertanto, complessivamente e cumulativamente idonee a destabilizzare l’equilibrio psico-fisico del lavoratore o a mortificare la sua dignità, ciò non esclude che tali condotte o alcune di esse, ancorché finalisticamente non accumunate, possano risultare, se esaminate separatamente e distintamente, lesive dei fondamentali diritti del lavoratore, costituzionalmente tutelati, di cui si è detto (arg. Ex Cass. sez. VI pen. 8 marzo 2006 n. 31413).
E a ciò non è di ostacolo neppure la eventuale originaria prospettazione della domanda giudiziale in termini di danno da mobbing, in quanto si tratta piuttosto di una operazione di esatta qualificazione giuridica dell’azione che il giudice è tenuto ad effettuare, interpretando il titolo su cui si fonda la controversia ed anche applicando norme di legge diverse da quelle invocate dalle parti interessate, purché lasciando inalterati sia il petitum che la causa petendi e non attribuendo un bene diverso da quello domandato o introducendo nel tema controverso nuovi elementi di fatto (Cass. 23 marzo 2005, n. 6326; Cass. 1° settembre 2004, n. 17610; Cass. 12 aprile 2006, n. 8519).
Inoltre, al fine della corretta individuazione della potenzialità lesiva (nei detti termini) delle indicate condotte si deve tenere anche degli esiti del lungo processo evolutivo che si è avuto in ambito comunitario, sulla scorta della giurisprudenza della Corte di giustizia, in materia di diritto antidiscriminatorio e antivessatorio, in genere e in particolare nei rapporti di lavoro, a partire dalla introduzione dell’art. 13 nel Trattato CE, da parte del Trattato di Amsterdam del 1997.
Tale processo, poi proseguito in sede comunitaria e nazionale, ha portato, nel corso del tempo principalmente per effetto del recepimento di direttive comunitarie, alla conseguenza che anche nel nostro ordinamento condotte potenzialmente lesive dei diritti fondamentali di cui si tratta abbiano ricevuto una specifica tipizzazione, come discriminatorie (in modo diretto o indiretto).
I contorni di questa complessa normativa sono divenuti più netti soprattutto a partire dall’entrata in vigore dei d.lgs. n. 215 e n. 216 del 2003, nei quali sono stati specificamente individuati alcuni fattori di discriminazione (orientamento sessuale, religione, convinzioni personali, handicap, età, razza, origine etnica) e, per l’onere della prova, si è stabilito che, quando la vittima fornisce elementi di fatto desunti anche da dati di carattere statistico, idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori per una delle ragioni prese in considerazione, spetta al convenuto l’onere della prova sull’insussistenza della discriminazione, cioè principalmente della insussistenza dell’elemento psicologico (riproducendo così la analoga disposizione contenuta nella legge 10 aprile 1991, n. 125, in materia di discriminazioni di genere).
In ordinamenti come il nostro che già prevedono a livello costituzionale norme di tutela dei diritti fondamentali del lavoratore, il suindicato elenco di fattori discriminatori e/o vessatori non è da considerare tassativo (ed è anzi destinato ad acquisire particolare rilevanza ai fini dell’applicazione della speciale forma di tutela prevista dalla legge n. 92 del 2012 in caso di licenziamento discriminatorio) così come, per quel che riguarda l’onere della prova, anche prima dell’entrata in vigore dei citati d.lgs. n. 215 e n. 216 del 2003, nel nostro ordinamento processuale era già previsto che, nel rito del lavoro, il principio dispositivo deve essere contemperato con quello della ricerca della verità materiale, con l’utilizzazione da parte del giudice anche di poteri officiosi oltre che della prova per presunzioni, alla quale, specialmente in casi come quello in oggetto, va attribuito precipuo rilievo, secondo la giurisprudenza di questa Corte.
Infatti, la prova presuntiva (o indiziaria) – che esige che il Giudice prenda in esame tutti i fatti noti emersi nel corso dell’istruzione, valutandoli tutti insieme e gli uni per mezzo degli altri e quindi esclude che il Giudice, avendo a disposizione una pluralità di indizi, li prenda in esame e li valuti singolarmente, per poi giungere alla conclusione che nessuno di essi assurga a dignità di prova (Cass. 9 marzo 2012, n. 3703) – consente attraverso la complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, gravità, frustrazione personale e/o professionale, altre circostanze del caso concreto) di poter risalire coerentemente, con un prudente apprezzamento, al fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno, facendo ricorso, ai sensi dell’art. 115 cod. proc. civ., a quelle nozioni generali derivanti dall’esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove.
Ciò, del resto, è conforme al consolidato orientamento di questa Corte in materia di prova del danno da demansionamento (Cass. SU 22 febbraio 2010, n. 4063; Cass. SU 24 marzo 2006, n. 6572 del 2006; Cass. 19 dicembre 2008, n. 29832; Cass. 26 novembre 2008, n. 28274), oltre che trovare riscontro nella giurisprudenza amministrativa in materia di mobbing (Cons. Stato 21 aprile 2010, n. 2272).
4.2. – La Corte partenopea si è discostata dai suddetti principi in quanto – dopo aver riferito che la domanda azionata non è stata formulata come richiesta di risarcimento del danno da mobbing, ma nei più ampi termini di richiesta di “risarcimento del danno esistenziale e del danno dovuto all’anticipato conseguimento del trattamento di quiescenza e di ogni altro danno patito in conseguenza delle azioni vessatorie” poste in essere dai soggetti appartenenti alla farmacia Santa Teresa, in qualità di dipendenti o titolari della farmacia stessa – ha impostato tutta la propria decisione sulla insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare tutti gli episodi addotti dalla ricorrente.
Quindi, una volta escluso il suddetto intento e quindi il mobbing – sulla base di una valutazione delle prove raccolte effettuata sempre nell’ottica della ricerca una “strategia persecutoria” – la Corte territoriale ha respinto la domanda, peraltro interpretata in modo scorretto sì da alterarne il senso e il contenuto sostanziale, in relazione alle finalità perseguite dalla ricorrente (Cass. 2 novembre 2005, n. 21208; Cass. 27 luglio 2010, n. 17547).
Prima di arrivare alla suddetta conclusione la Corte d’appello non si è neppure posta il problema di valutare se alcuni dei comportamenti denunciati – esaminati singolarmente ma sempre in relazione agli altri – pur non essendo accomunati dal medesimo fine persecutorio, possano essere considerati vessatori e mortificanti per la ricorrente e, come tali, siano ascrivibili alla responsabilità del datore di lavoro che possa essere chiamato a risponderne, ovviamente nei soli limiti dei danni a lui imputabili.
Ciò, da un lato, significa che se tra i diversi episodi addotti si accerti che qualcuno ha carattere vessatorio questo non necessariamente implica l’attribuzione al comportamento datoriale del ruolo di causa o concausa dello stato depressivo della ricorrente culminato nel tentativo di suicidio, ma non per questo esclude che possa configurarsi un danno giuridicamente apprezzabile.
E, d’altra parte, comporta che la determinazione, in ipotesi, dell’eventuale efficacia causale diretta o indiretta di una condotta vessatoria datoriale rispetto al suindicato stato patologico sia effettuata sulla base di un adeguato accertamento della situazione psichica della ricorrente prima dell’insorgere della depressione culminata nel tentativo di suicidio (Cass. 8 giugno 2007, n. 13400; Cass. 11 giugno 2009, n. 13530).
4.3. – Poiché la sentenza impugnata, con motivazione incongrua, ha violato i suindicati principi, i relativi profili di censura deve essere accolto.
III – Conclusioni
5. – Ne consegue che, in relazione alle censure accolte, la sentenza deve essere cassata, con rinvio, anche per le spese del presente giudizio, alla Corte d’appello di Napoli, in diversa composizione, che si atterrà ai principi su enunciati e, in particolare, al seguente principio di diritto:
“Nella ipotesi in cui il lavoratore chieda il risarcimento del danno patito alla propria integrità psico-fisica in conseguenza di una pluralità di comportamenti del datore di lavoro e dei colleghi di lavoro di natura asseritamente vessatoria, il Giudice del merito, pur nella accertata insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare tutti gli episodi addotti dall’interessato e quindi della configurabilità del mobbing, è tenuto a valutare se alcuni dei comportamenti denunciati – esaminati singolarmente ma sempre in relazione agli altri – pur non essendo accomunati dal medesimo fine persecutorio, possano essere considerati vessatori e mortificanti per il lavoratore e, come tali, siano ascrivibili alla responsabilità del datore di lavoro che possa essere chiamato a risponderne, ovviamente nei soli limiti dei danni a lui imputabili”.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il primo motivo e accoglie il secondo. Cassa la sentenza impugnata, in relazione alle censure accolte, e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’appello di Napoli, in diversa composizione.