Il caso: R. Z., in proprio e quale titolare della potestà parentale sul figlio minore M. Z., nonché amministratrice di sostegno del marito B. Z., proponeva ricorso per i danni derivanti da un infortunio sul lavoro avvenuto al marito, il quale, mentre attendeva alla pulizia dell’orlo di una botola sita nel pavimento di un locale di lavoro, era stato colpito dal pesante coperchio della botola stessa, oscillante perché tenuto sospeso e trasportato da un carroponte, ed era precipitato nel locale sottostante. Il conseguente trauma cranico ne aveva provocato un coma tuttora persistente.
Il caso giunge fino alla Suprema Corte (Cass. n. 1716/12), in quanto la datrice di lavoro contestava sia l’an che il quantum delle sentenze di primo e secondo grado.
Sul primo punto la ricorrente riteneva esserci quantomeno un concorso di colpa del danneggiato, il quale avrebbe tenuto un comportamento in contrasto “con le disposizioni dell’azienda circa le operazioni da effettuare nel caso di specie”.
Le sentenze dei precedenti gradi di giudizio, però, avevano rilevato come la datrice di lavoro non avesse prodotto il documento comprovante la predisposizione di detta procedura e come tale documento non fosse sostituibile da generiche affermazioni dei testimoni, peraltro dipendenti della società, circa la formazione professionale ricevuta in azienda.
Come noto la responsabilità dell’imprenditore nei casi di infortunio sul lavoro è esclusa solo in caso di dolo o rischio elettivo del lavoratore, ossia di rischio generato da un’attività estranea alle mansioni lavorative o esorbitante da esse in modo irrazionale ed entrambe le fattispecie, a parere dei giudici, non si erano verificate nella controversia de qua.
Infine gli Ermellini sottolinevano come la sentenza impugnata avesse “rilevato la mancata predisposizione, da parte della società datrice di lavoro, di una procedura idonea ad evitare che durante la manovra del carroponte, tanto più se operante con un pesante carico sospeso e perciò oscillante, un lavoratore potesse trovarsi nell’area di manovra, ed anche ad evitare che in quest’area il lavoratore, privo di un’attrezzatura di ritenzione della persona, potesse operare sull’orlo della botola priva di recinzione e potesse così cadere nel vano sottostante, come avvenne”.
Ma il punto più interessante della pronuncia in commento riguarda la quantificazione dei danni, dato che la società ricorrente sosteneva esserci stata la violazione dell’art. 2059 cod. civ. “per avere la Corte quantificato il danno senza concreta applicazione del principio della personalizzazione dello stesso”.
In particolare si discuteva dell’ammissibilità del cd. danno morale nel caso di soggetto rimasto in stato vegetativo a seguito dell’incidente occorsogli.
Come noto, il danno morale ha ad oggetto le sofferenze psichiche subite dal danneggiato a seguito di un illecito, ma i giudici di legittimità ritengono che tale voce di danno tuteli anche la dignità personale dello stesso.
Nel caso di specie sicuramente vi è stato un vulnus alla dignità personale del lavoratore-padre di famiglia, che viene ridotto allo stato vegetativo e perde ogni legame con la vita, compresi i vincoli affettivi nell’ambito della comunità familiare, tutelata dagli artt. 2, 29 e 30 Cost..
La Suprema Corte quindi applica il principio di proporzionalità e uguaglianza: sarebbe infatti iniquo riconoscere il diritto soggettivo al risarcimento del danno morale nei casi in cui l’infortunio, e quindi le sofferenze, siano di minore entità e negarlo quando invece queste sofferenze non siano neppure possibili a causa dello stato di non lucidità del danneggiato.