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La Corte di Cassazione, con la pronuncia n. 5583 del 2011, è tornata sulla annosa questione della liceità del “contratto di sale and lease back”.

A tal riguardo, appare doveroso ricordare che il cd. sale and lease back, può definirsi come un’operazione in cui un’impresa commerciale o industriale vende un bene di sua proprietà ad un imprenditore finanziario che ne paga il corrispettivo — diventandone proprietario — e contestualmente lo cede in leasing (locazione finanziaria) alla stessa società alienante, che versa periodicamente dei canoni di leasing per una durata temporale determinata, con facoltà di riacquistare la proprietà del bene venduto corrispondendo alla scadenza del contratto il prezzo stabilito per il riscatto (cfr. RISPOLI G., Lease Back: Chiaroscuri applicativi fra funzione di finanziamento e garanzia, Giurisprudenza italiana 3/2012).

La questione di diritto affrontata dalla S.C., con la pronuncia in commento, concerne la compatibilità del contratto de quo con la disciplina dell’art. 2744 c.c., secondo cui è nullo il patto col quale si conviene che, in mancanza del pagamento del credito nel termine fissato, la proprietà della cosa ipotecata o data in pegno passi al creditore. Il patto è nullo anche se posteriore alla costituzione dell’ipoteca o del pegno.

Si tratta del cd. divieto del patto commissorio, con cui s’intende evitare: a) che il debitore alienante attribuisca al creditore un bene di valore maggiore rispetto all’entità del credito di quest’ultimo; b) che il debitore sia “costretto” a compire tale atto di disposizione e ad accettare condizioni inique; c) che si leda il principio della par condicio creditorum.

In particolare, la giurisprudenza si è soffermata sull’elemento della coazione psicologica del debitore, negandola laddove l’atto di disposizione del debitore conseguisse ad una libera scelta. Si veda sul punto la posizione assunta da Cass. Civ. n. 893 del 1999 in cui si afferma che il patto commissorio, vietato dall’art. 2744 c.c., è configurabile solo quando il debitore sia costretto al trasferimento di un bene, a tacitazione dell’obbligazione, non anche, pertanto, ove tale trasferimento sia frutto di una scelta, come nel caso in cui venga liberamente concordato quale datio in solutum (art. 1197 c.c.), ovvero esprima esercizio di una facoltà che si sia riservata all’atto della costituzione dell’obbligazione medesima (art. 1286 c.c.).

Va, peraltro, sottolineato che la giurisprudenza ha interpretato estensivamente il divieto del patto commissorio, valutando con “disfavore” anche operazioni “astrattamente lecite” come la vendita con patto di riscatto, laddove risultasse evidente la causa di garanzia. In Cass. Civ. n. 13261 del 2007, ad esempio, si è affermato che: qualora la vendita con patto di riscatto, pur se ad effetti apparentemente immediati, sia stipulata a scopo di garanzia con il fine specifico di attribuire il bene al creditore soltanto nel caso di inadempimento del debitore, il contratto, eludendo il divieto del patto commissorio sancito dall’art. 2744 cod. civ., è, ai sensi dell’art. 1344 cod. civ., affetto da nullità per causa illecita. (Nella specie, è stato escluso che la vendita fosse stata stipulata a garanzia dell’adempimento delle obbligazioni del venditore, sul rilievo che non era stato pattuito il patto “de retrovendendo”). Ancora più radicale la posizione assunta da Cass. Civ. n. 20956 del 2011, in cui si è sostenuta la nullità della vendita con patto di riscatto, se stipulata per una causa di garanzia (piuttosto che per una causa di scambio), nell’ambito della quale il versamento del danaro, da parte del compratore, non costituisca pagamento del prezzo ma esecuzione di un mutuo, ed il trasferimento del bene serva solo per costituire una posizione di garanzia provvisoria capace di evolversi a seconda che il debitore adempia o meno l’obbligo di restituire le somme ricevute.

Pertanto, così delineati i tratti salienti dell’istituto de quo, si tratta di comprendere se ed in quale misura la stipulazione di un contratto di sale and lease back possa costituire violazione del divieto di cui all’art. 2744 c.c.

La S.C., con la pronuncia in commento, ha, in primo luogo, affermato perentoriamente che: nel contratto di sale and lease back, la vendita ha scopo di leasing, e non di garanzia, perché nella configurazione socialmente tipica del rapporto costituisce solo il presupposto necessario della locazione finanziaria, inserendosi nella operazione economica secondo la funzione specifica di questa, che è quella di procurare all’imprenditore, nel quadro di un determinato disegno economico di potenziamento dei fattori produttivi, liquidità immediata mediante l’alienazione di un suo bene strumentale, conservandone a questo l’uso con facoltà di riacquistarne la proprietà al termine del rapporto. Tale vendita, ed il complesso rapporto atipico nel quale si inserisce, non è allora di per sé in frode al divieto del patto commissorio.

Viceversa, l’operazione va dichiarata nulla, ai sensi dell’art. 1344 c.c., tutte le volte che, il debitore, allo scopo di garantire al creditore l’adempimento dell’obbligazione, trasferisca a garanzia del creditore stesso un proprio bene riservandosi la possibilità di riacquistarne il diritto dominicale all’esito dell’adempimento dell’obbligazione, senza peraltro prevedere alcuna facoltà, in caso di inadempimento, di recuperare l’eventuale eccedenza di valore del bene rispetto all’ammontare del credito, con un adattamento funzionale dello scopo di garanzia del tutto incompatibile con la struttura e la ratio del contratto di compravendita.

La Corte, inoltre, indica i seguenti criteri (cumulativi) ai fini di valutare l’illiceità del contratto: a) l’esistenza di una situazione di credito e debito tra la società finanziaria e l’impresa venditrice utilizzatrice; b) le difficoltà economiche di quest’ultima; c) la sproporzione tra il valore del bene trasferito ed il corrispettivo versato dall’acquirente.

Parte della dottrina (RISPOLI, op cit) ha criticato la “perentorietà” dell’affermazione della Corte, sostenendo di valutare se nel caso concreto l’operazione posta in essere dalle parti violi realmente la ratio dell’art. 2744 c.c.

In particolare, è stato proposto, al fine di salvaguardare la validità dell’operazione, di associare al sale and lease back anche la cd. cautela marciana, intesa come quell’operazione (considerata lecita dalla giurisprudenza) con cui il debitore, in caso di inadempimento, trasferisce al creditore la proprietà di un bene, previa una stima peritale prodromica all’accertamento del reale valore del bene, con conseguente diritto del debitore alla restituzione dell’eventuale eccedenza del valore (rispetto al credito insoluto).

La cautela marciana, infatti, al pari del cd. “pegno irregolare” (in base al quale il creditore pignoratizio acquista, in caso di inadempimento del debitore, la proprietà delle somme di danaro o dei titoli depositati, per effetto di una mera operazione contabile), non costituisce, infatti, violazione del divieto di patto commissorio.

Ricordiamo che, con riferimento al pegno irregolare, la giurisprudenza aveva affermato che la costituzione di un pegno irregolare rende inoperante il divieto di patto commissorio di cui all’art. 2744 c.c., atteso che, a mente del disposto del precedente art. 1851, ed in coerenza con l’intento del legislatore di evitare indebite locupletazioni, deve ritenersi consentito al creditore, nell’ipotesi di inadempimento della controparte, di fare definitivamente propria la (sola) somma corrispondente al credito garantito e, quindi, di compensarlo con il suo debito di restituzione del “tantundem”, nel legittimo esercizio del proprio diritto di prelazione e senza richiesta di assegnazione al giudice dell’esecuzione (Cass. civ. Sez. III, 24/05/2004, n. 10000)

In conclusione, se da un lato, alla luce di una interpretazione letterale del dictum della S.C., si potrebbe concludere nel senso che la causa di garanzia renderebbe, in ogni caso, nullo il sale and lease back, dall’altro, vi sarebbero fondate ragioni per affermarne, comunque, la validità, in presenza di ulteriori strumenti (quali la cautela marciana) idonei ad eliminare i rischi connessi con le pattuizioni commissorie.

* * *

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PANEBIANCO Ugo Riccardo – Presidente

Dott. MAGNO Giuseppe Vito Antonio – Consigliere

Dott. PERSICO Mariaida – Consigliere

Dott. VIRGILIO Biagio – Consigliere

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 32516/2005 proposto da:

B SRL in persona del legale rappresentante pro tempore, D.P.C., elettivamente domiciliati in ROMA VIA GUIDO D’AREZZO, 18, presso lo studio dell’avvocato P.A., rappresentati e difesi dall’avvocato A.B., giusta delega in calce;

– ricorrenti –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore, MINISTERO DELL’ECONOMIA E FINANZE in persona del Ministro pro tempore, elettivamente domiciliati in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che li rappresenta e difende ope legis;

(Svolgimento e motivazione)

Con sentenza del 14/12/2004 la Commissione Tributaria Regionale della Campania respingeva il gravame interposto dalla società B s.r.l. e dall’a.u. sig. D.P.C. nei confronti della pronunzia della Commissione Tributaria Provinciale di Salerno di rigetto dell’opposizione dai medesimi spiegata nei confronti di avviso di accertamento emesso a titolo di determinazione di maggior reddito a titolo di I.R.P.E.G. ed I.R.A.P. per l’anno d’imposta 1998, in relazione a contratto di sale and lease back avente ad oggetto capannone industriale costruito dall’a.u. D.P. su terreno di sua proprietà in virtù di contratto verbale di appalto dalla società con il medesimo stipulato.

Avverso la suindicata decisione del giudice dell’appello la società B. s.r.l. e l’a.u. sig. D.P.C. propongono ora ricorso per cassazione, affidato a 5 motivi.

Resistono con controricorso l’Agenzia delle entrate e il Ministero dell’economia e delle finanze.

– – –

Con il 1 motivo i ricorrenti denunziano violazione e/o falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, art. 145 c.p.c.,art. 24 Cost., e della L. n. 890 del 1982, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Si dolgono che sia stata dal giudice del gravame di merito ritenuta valida la notificazione dell’atto d’appello dalla controparte effettuata a mezzo posta con avviso consegnato a soggetto non abilitato ai sensi della L. n. 890 del 1982, art.7, senza invero nemmeno il rispetto delle procedure previste dall’art. 141 c.p.c., laddove essa è da considerarsi viceversa inesistente, risultando pertanto inapplicabile la sanatoria ex art. 156 c.p.c..

Con il 2′ motivo denunziano violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Lamentano che l’impugnato avviso di accertamento non conteneva “gli elementi essenziali delle contestazioni”, facendo invero apoditticamente rinvio al “p.v.c.”, con conseguente violazione anche del suo diritto di difesa.

Con il 3′ motivo denunziano violazione e falsa applicazione dell’art. 2727 c.c., in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Si dolgono che il giudice dell’appello abbia considerato idoneo l’operato degli accertatori, recependo quanto affermato dal giudice di prime cure e senza valutare le mosse censure al riguardo.

Con il 4′ motivo i ricorrenti denunziano violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 131 de 1986, art. 24D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Si dolgono che il giudice dell’appello non abbia ritenuto la piena legittimità degli atti negoziali posti nella specie in essere integranti invero una lecita ipotesi di sale and lease back.

Con il 5 motivo denunziano violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, artt. 53 e 75D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 8D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 6, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Lamentano che in relazione all’operazione economica posta in essere non vi era alcun obbligo di emettere fattura e di dichiarare ricavi in ordine alla vendita dell’immobile de qua, risultando pertanto le sanzioni indebitamente irrogate, e che le “eccezioni” al riguardo “esposte nei ricorsi di primo e di secondo grado” non sono state considerate nel l’impugnata sentenza, che è pertanto “viziata da omessa motivazione su punto decisivo della stessa”.

I motivi, che possono congiuntamente esaminarsi in quanto connessi, sono in parte inammissibili e in parte infondati.

Come questa Corte ha già avuto più volte modo di affermare, i motivi posti a fondamento dell’invocata cassazione della decisione impugnata debbono avere i caratteri della specificità, della completezza, e della riferibilità alla decisione stessa, con – fra l’altro – l’esposizione di argomentazioni intelligibili ed esaurienti ad illustrazione delle dedotte violazioni di norme o principi di diritto, essendo inammissibile il motivo nel quale non venga precisato in qual modo e sotto quale profilo (se per contrasto con la norma indicata, o con l’interpretazione della stessa fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina) abbia avuto luogo la violazione nella quale si assume essere incorsa la pronuncia di merito.

Sebbene l’esposizione sommaria dei fatti di causa non deve necessariamente costituire una premessa a sè stante ed autonoma rispetto ai motivi di impugnazione, è tuttavia indispensabile, per soddisfare la prescrizione di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, che il ricorso, almeno nella parte destinata alla esposizione dei motivi, offra, sia pure in modo sommano, una cognizione sufficientemente chiara e completa dei fatti che hanno originato la controversia, nonchè delle vicende del processo e della posizione dei soggetti che vi hanno partecipato, in modo che tali elementi possano essere conosciuti soltanto mediante il ricorso, senza necessità di attingere ad altre fonti, ivi compresi i propri scritti difensivi del giudizio di merito, la sentenza impugnata ed il ricorso per cassazione (v. Cass., 23/7/2004, n. 13830; Cass., 17/4/2000, n. 4937; Cass., 22/5/1999, n. 4998).

E cioè indispensabile che dal solo contesto del ricorso sia possibile desumere una conoscenza del “fatto”, sostanziale e processuale, sufficiente per bene intendere il significato e la portata delle critiche rivolte alla pronuncia del giudice a qua (v.

Cass., 4/6/1999, n. 5492).

Quanto al vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, va invero ribadito che esso si configura solamente quando dall’esame del ragionamento svolto dal giudice del merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero un insanabile contrasto tra le argomentazioni adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico giuridico pos

to a base della decisione (in particolare cfr.

Cass., 25/2/2004, n. 3803).

Tale vizio non consiste pertanto nella difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove preteso dalla parte rispetto a quello operato dal giudice di merito (v. Cass., 14/3/2006. n. 5443; Cass., 20/10/2005, n. 20322).

La deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce infatti al giudice di legittimità non già il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la mera facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, cui in via esclusiva spetta il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, di dare (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge) prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti (v. Cass., 7/3/2006, n. 4842;. Cass., 27/4/2005, n. 8718).

Orbene, i suindicati principi risultano invero non osservati dagli odierni ricorrenti.

Già sotto l’assorbente profilo dell’autosufficienza, va posto in rilievo come i medesimi facciano richiamo ad atti e documenti del giudizio di merito es., all'”avviso di accertamento n. (OMISSIS)”, al “contratto sale and lease back relativo ad un capannone”, al “contratto verbale di appalto… seguito da regolare fattura…”, al contratto di compravendita stipulato innanzi al Notaio Ermanno Buonocore di Salerno in data 15=04/1998 (All. n. 3 del p.v.c.”, al contratto di “leasing… con diritto di riscatto (sale and lease back)”, alla locazione “a terzi”, all'”opposizione avverso l’avviso di accertamento”, alla sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Salerno, all'”avviso di rettifica ai fini IVA”, alle “opposizioni formulate rispetto agli accertamenti IVA”, alle “note di deposito documenti (in data 25/01/2002)”, alle “memorie illustrative (sempre in data 25/01/2002)”, alla “raccomandata postale”, all'”avviso” di ricevimento della notifica effettuata a mezzo posta, alla “memoria di costituzione in giudizio in primo grado”, all'”accertamento effettuato dalla G. di F.”, al “verbale”, ai “vari atti oggetto della stesa operazione”, al “testamento olografo pubblicato innanzi al notaio Enrico Marra di Napoli”, all'”operato” dell’Ufficio del registro di Napoli, alla “documentazione in atti”, ai “fatti avvenuti nonchè alla documentazione presente nel fascicolo processuale”, al “p.v.c.”, di cui lamentano la mancata o erronea valutazione, limitandosi a meramente rinviare agli atti del giudizio di merito, senza invero debitamente riprodurli nel ricorso.

A tale stregua non pongono questa Corte nella condizione di effettuare il richiesto controllo (anche in ordine alla tempestività e decisività dei denunziati vizi), da condursi sulla base delle sole deduzioni contenute nel ricorso, alle cui lacune non è possibile sopperire con indagini integrative, non avendo la Corte di legittimità accesso agli atti del giudizio di merito (v. Cass., 24/3/2003, n. 3158; Cass., 25/8/2003, n. 12444; Cass., 172/1995, n. 1161).

Con particolare riferimento al 1 motivo va in ogni caso osservato che come Le Sezioni Unite di questa Corte hanno avuto modo di affermare in tema di notificazione a mezzo posta presso la sede di un ente, la L. n. 890 del 1982, art. 7, comma 2, con disposizioni estensibili alle persone giuridiche, consente la consegna del plico, oltre che al legale rappresentante, a persona all’uopo addetta, e, allorchè il conferimento del compito di ritirare l’atto sia stato dichiarato dalla persona cui viene effettuata la consegna e che sottoscrive l’avviso di ricevimento, l’agente postale è dispensato da ulteriori accertamenti, determinando tale dichiarazione la presunzione, fino a prova contraria, dell’esistenza dell’incarico (v. Cass., Sez. Un., 24/10/2005, n. 20473).

A tale stregua, grava invero sul richiedente la notifica l’onere di provare l’inesistenza della qualità dichiarata dal consegnatario (v.

Cass., Sez. Un., 23/11/2004, n. 22044).

Orbene, premesso che ben è ammissibile la notifica a mezzo del servizio postale anche dell’avviso di accertamento (v. Cass., 28/7/2010, n. 17598; Cass., n. 15284 del 2008), a fronte del positivo accertamento nella specie compiuto dai giudici del merito in ordine all’essere stata correttamente effettuata ex art. 145 c.p.c., dandosi nell’impugnata sentenza atto della circostanza che l'”avviso di accertamento risulta sottoscritto dallo stesso destinatario e l’avviso fa riferimento alla raccomandata n. (OMISSIS) che esattamente è la stessa che gli appellanti hanno ricevuto ed allegato in fotocopia al ricorso di 1′ grado nell’allegato n. 1″, i ricorrenti muovono apodittiche censure laddove sostengono che la notifica a mezzo posta dell’avviso di rettifica “non è stato mai consegnato alla società od al suo rappresentante legale, ma ad un terzo soggetto che non è ricompreso fra quelli abilitati a ricevere l’atto ai sensi della L. 890 del 1982, art. 7…”, senza invero debitamente riportare nel ricorso – in violazione del principio di autosufficienza – l’avviso di ricevimento, e senza nemmeno dedurre alcuna prova idonea a vincere la presunzione.

Osservato ulteriormente che con il 2′ motivo i ricorrenti inammissibilmente censurano in realtà l’avviso di accertamento, piuttosto che l’impugnata sentenza della corte di merito; e rilevato che la prima delle due censure denunziate al 5 motivo risulta del tutto sfornita di qualsivoglia argomentazione a relativo sostegno, in ordine alle doglianze di omessa motivazione di cui al 3 e al 5 motivo va per altro verso ribadito che il motivo di ricorso per cassazione con il quale alla sentenza impugnata venga mossa censura per vizi di motivazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non può essere utilizzato per far valere la non rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice del merito al diverso convincimento soggettivo della parte, non valendo esso a proporre in particolare un pretesamente migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti, atteso che tali aspetti, interni all’ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice, e non ai possibili vizi del relativo iter formativo, rilevanti ai sensi della norma in esame (v. Cass., 9/5/2003, n. 7058).

Il motivo di ricorso per cassazione viene altrimenti come nella specie a risolversi in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice del merito, id est di nuova pronunzia sul fatto, estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di legittimità.

Nè, ricorre d’altro canto vizio di omessa pronuncia su punto decisivo qualora la soluzione negativa di una richiesta di parte sia implicita nella costruzione logico-giuridica della sentenza, incompatibile con la detta domanda (v. Cass., 18/5/1973, n. 1433;

Cass., 28/6/1969, n. 2355).

Quando cioè la decisione adottata in contrasto con la pretesa fatta valere dalla parte comporti necessariamente il rigetto di quest’ultima, anche se manchi una specifica argomentazione in proposito (v. Cass., 21/10/1972, n. 3190; Cass., 17/3/1971, n. 748;

Cass., 23/6/1967, n. 1537).

Secondo risalente insegnamento di questa Corte, al giudice di merito non può invero imputarsi di avere omesso l’esplicita confutazione delle tesi non accolte o la particolareggiata disamina degli elementi di giudizio non ritenuti significativi, giacchè nè l’una nè l’altra gli sono richieste, mentre soddisfa l’esigenza di adeguata motivazione che il raggiunto convincimento come nella specie risulti da un esame logico e coerente, non già di tutte le prospettazioni delle parti e le emergenze istruttorie, bensì solo di quelle ritenute di per sè sole idonee e sufficienti a giustificarlo.

In altri termini, non si richiede al giudice del merito di dar conto dell’esito dell’avvenuto esame di tutte le prove prodotte o comunque acquisite e di tutte le tesi prospettategli, ma di fornire una motivazione logica ed adeguata dell’adottata decisione, evidenziando le prove ritenute idonee e sufficienti a suffragarla, ovvero la carenza di esse.

Orbene, le deduzioni degli odierni ricorrenti, che non hanno mosso censure ex art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, oltre a risultare formulate secondo un modello difforme da quello delineato all’art. 366 c.p.c., n. 4, in realtà si risolvono nella mera doglianza circa l’asseritamente erronea attribuzione da parte del giudice del merito agli elementi valutati di un valore ed un significato difformi dalle loro aspettative (v. Cass., 20/10/2005, n. 20322), e nell’inammissibile pretesa di una lettura dell’asserto probatorio diversa da quella nel caso operata dai giudici di merito (cfr. Cass., 18/4/2006, n. 8932).

Relativamente al 4 motivo va infine sottolineato come questa Corte ormai da tempo abbia affermato che nel contratto di sale and lease back con il quale una impresa commerciale o industriale vende un bene immobile di sua proprietà ad un imprenditore finanziario che ne paga il corrispettivo, diventandone proprietario, e contestualmente lo cede in locazione finanziaria (leasing) alla stessa venditrice, che versa periodicamente dei canoni di leasing per una certa durata, con facoltà di riacquistare la proprietà del bene venduto, corrispondendo al termine di durata del contratto il prezzo stabilito per il riscatto, la vendita ha scopo di leasing, e non di garanzia, perchè nella configurazione socialmente tipica del rapporto costituisce solo il presupposto necessario della locazione finanziaria, inserendosi nella operazione economica secondo la funzione specifica di questa, che è quella di procurare all’imprenditore, nel quadro di un determinato disegno economico di potenziamento dei fattori produttivi, liquidità immediata mediante l’alienazione di un suo bene strumentale, conservandone a questo l’uso con facoltà di riacquistarne la proprietà al termine del rapporto.

Tale vendita, ed il complesso rapporto atipico nel quale si inserisce, non è allora di per sè in frode al divieto del patto commissorio (in ordine al quale v. da ultimo Cass., 5/3/2010, n. 5426; Cass., 12/1/2009, n. 437).

Divieto che, essendo diretto ad impedire al creditore l’esercizio di una coazione morale sul debitore spinto alla ricerca di un mutuo (o alla richiesta di una dilazione nel caso di patto commissorio ab intervallo) da ristrettezze finanziarie, e a precludere, quindi, al predetto creditore la possibilità di fare proprio il bene attraverso un meccanismo che lo sottrarrebbe alla regola della par candido creditorum, deve ritenersi tuttavia violato ogniqualvolta lo scopo di garanzia costituisca non già mero motivo del contratto ma assurga a causa concreta della vendita con patto di riscatto o di retrovendita (v. Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26973; Cass., 27/7/2006, n. 17145; Cass., 8/5/2006, n. 10490; Cass., 14/11/2005, n. 22932; Cass., 26/10/2005, n. 20816; Cass., 21/10/2005, n. 20398), a meno che non risulti, in base a dati sintomatici ed obiettivi, quali la presenza di una situazione credito-debitori a preesistente o contestuale alla vendita o la sproporzione tra entità del prezzo e valore del bene alienato e, in altri termini, delle reciproche obbligazioni nascenti dal rapporto (costituenti invero oggetto di accertamento di fatto: v.

Cass., 16/10/1995, n. 10805; Cass., 19/7/1997, n. 6663; Cass., 26/6/2001, n. 8742; Cass., 22/3/2007, n. 6969), che la predetta vendita, nel quadro del rapporto diretto ad assicurare una liquidità all’impresa alienante, è stata invero piegata al rafforzamento della posizione del creditore-finanziatore, il quale in tal modo tenta di acquisire l’eccedenza del valore, abusando della debolezza del debitore (v. Cass., 16/10/1995, n. 10805; Cass., 7/5/1998, n. 4612;

Cass., 29/3/2006, n. 7296).

Così come il c.d. leasing finanziario (v, Cass., 27/7/2006, n. 17145), anche il contratto di sale&lease back si configura, si è da questa Corte precisato, secondo uno schema negoziale socialmente tipico (in quanto frequentemente applicato, sia in Italia che all’estero, nella pratica degli affari), come caratterizzato da una specificità sia di struttura che di funzione (e, quindi, da originalità e autonomia rispetto ai tipi negoziali codificati), e concretamente attuato attraverso il collegamento tra un contratto di vendita di un proprio bene di natura strumentale da parte di un’impresa (o di un lavoratore autonomo) ad una società di finanziamento che, a sua volta, lo concede contestualmente in leasing all’alienante il quale corrisponde, dal suo canto, un canone di utilizzazione con facoltà, alla scadenza del contratto, di riacquistarne la proprietà esercitando un diritto di opzione per un predeterminato prezzo.

Manca pertanto nel sale&lease back la trilateralità propria del leasing, potendo essere due (e soltanto due) i soggetti dell’operazione finanziaria (e, conseguentemente, le parti del contratto), l’imprenditore assumendo la duplice veste del fornitore- venditore e dell’utilizzatore, secondo un procedimento non diverso da quello dell’antico costituto possessorio. Ne consegue che il negozio di sale&lease back viola la rado del divieto del patto commissorio, al pari di qualunque altra fattispecie di collegamento negoziale, sol che (e tutte le volte che) il debitore, allo scopo di garantire al creditore l’adempimento dell’obbligazione, trasferisca a garanzia del creditore stesso un proprio bene riservandosi la possibilità di riacquistarne il diritto dominicale all’esito dell’adempimento dell’obbligazione, senza peraltro prevedere alcuna facoltà, in caso di inadempimento, di recuperare l’eventuale eccedenza di valore del bene rispetto all’ammontare del credito, con un adattamento funzionale dello scopo di garanzia del tutto incompatibile con la struttura e la ratio del contratto di compravendita (v. Cass., 21/1/2005, n. 1273).

L’operazione contrattuale può dunque definirsi fraudolenta nel caso in cui si accerti, con una indagine che è tipicamente di fatto, sindacabile in sede di legittimità soltanto sotto il profilo della correttezza della motivazione, la compresenza delle seguenti circostanze: l’esistenza di una situazione di credito e debito tra la società finanziaria e l’impresa venditrice utilizzatrice, le difficoltà economiche di quest’ultima, la sproporzione tra il valore del bene trasferito ed il corrispettivo versato dall’acquirente (v.

Cass., 14/3/2006, n. 5438).

L’esistenza invece di una concreta causa negoziale di scambio (che può riguardare, o meno, tanto il sale&lease back quanto lo stesso leasing finanziario) esclude in radice la configurabilità del patto vietato (v. Cass., 21/1/2005, n. 1273).

Il sale&lease back costituisce allora operazione caratterizzata da una pluralità di negozi collegati funzionalmente volti al perseguimento di uno specifico interesse pratico che ne costituisce appunto la relativa causa concreta, che assume specifica ed autonoma rilevanza rispetto a quella – parziale – dei singoli contratti, di questi ultimi connotando la reciproca interdipendenza (si che le vicende dell’uno si ripercuotono sull’altro, condizionandone la validità e l’efficacia) nella pur persistente individualità propria di ciascun tipo negoziale, a tale stregua segnandone la distinzione con il negozio complesso o con il negozio misto (v. Cass., 16/3/2006, n. 5851; Cass., 12/7/2005, n. 14611; Cass., 17/12/2004, n. 23470;

Cass., 24/3/2004, n. 5941; Cass., 16/5/2003, n. 7640; Cass., 11/6/2001. n. 7852; Cass., 4/9/1996, n. 8070; Cass., 27/4/1995, n. 4645; Cass., 20/11/1992, n. 12401: Cass., 5/7/1991, n. 7415; Cass., 15/12/1984, n. 6586; Cass., 17/11/1983, n. 6864; Cass., 2/7/1981, n. 4291. V. anche Cass., 8/7/2004, n. 12567; Cass., 2/4/2001, n. 4812;

Cass., 11/3/1987, n. 2524. Per il collegamento volontario v., in particolare, Cass., 25/7/1984, n. 4350).

Causa concreta la cui valutazione assume decisivo rilievo ai fini della valutazione in termini di relativa validità (nel qual caso, ai fini della determinazione delle imposte sui redditi ne consegue, anche in caso di lease back, come nell’ipotesi di leasing, la deducibilità dei relativi canoni da parte dell’utilizzatore: v.

Cass., 29/3/2006, n. 7296; e l’A.F. non può, ai fini dell’I.V.A., ritenere l’operazione inesistente e puramente apparente: v. Cass., 25/5/2009, n. 12044) o nullità (v. Cass., 7/5/1998, n. 4612).

In materia tributaria va ulteriormente sottolineato, questa Corte ha al riguardo già avuto modo di precisare che, una volta contestata dall’erario l’antieconomicità delle singole operazioni poste in essere dal contribuente che sia imprenditore commerciale, è onere di quest’ultimo dimostrare la liceità fiscale dell’operazione negoziale unitariamente considerata nel suo complesso, e il giudice tributario non può al riguardo limitarsi a constatare la mera regolarità formale della documentazione cartacea (v., con riferimento ad ipotesi di canoni di leasing, Cass., 25/5/2009, n. 12044. V. altresì Cass., 18/5/2007, n. 11599, e, da ultimo, cfr. Cass., 12/1/2011, n. 616).

Orbene, a fronte delle contestazioni nel caso mosse dall’A.F., gli odierni ricorrenti non hanno invero offerto e dato prova alcuna della liceità dell’operazione negoziale in argomento, limitandosi ad apoditticamente, nella rilevata violazione del principio di autosufficienza, escludere la relativa finalità elusiva.

Con riferimento infine alla censura concernente la denunzia di violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis, di cui al 4′ motivo, e in particolare alla doglianza che “l’operazione contestata dall’Ufficio non è contemplata fra quelle tassativamente previste dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis“, non può infine sottacersi che, come questa Corte ha già avuto modo di affermare in tema di imposte sul reddito d’impresa, l’esame delle operazioni poste in essere dall’imprenditore, ai fini del riconoscimento del diritto a deduzioni o a benefici fiscali, deve essere compiuto anche alla stregua del principio, desumibile dal concetto di abuso del diritto elaborato dalla giurisprudenza comunitaria (in materia fiscale v. in particolare Corte Giust., 21/2/2006, C-255/02), secondo cui non possono trarsi benefici da operazioni che, seppure realmente volute e quand’anche immuni da invalidità, risultino, alla stregua di un insieme di elementi obiettivi, compiute essenzialmente allo scopo di ottenere un vantaggio fiscale (v. Cass., 29/9/2006, n. 21221).

Trattasi di un principio generale antielusivo desumibile dall’art. 53 Cost., non essendo pertanto al riguardo necessario farsi necessariamente luogo all’accertamento della simulazione o del carattere fraudolento dell’operazione, trattandosi di valutare quest’ultima nella sua essenza, non potendo a riguardo influire ragioni economiche meramente marginali o teoriche, inidonee a fornire una spiegazione alternativa dell’operazione rispetto al mero risparmio fiscale, e tali quindi da potersi considerare manifestamente inattendibili o assolutamente irrilevanti rispetto alla predetta finalità (v. Cass., Sez. Un., 23/12/2008, n. 30055;

Cass., 21/4/2008, n. 10257; Cass., 29/9/2006, n. 21221).

Alla stregua di tutto quanto sopra rilevato ed esposto, emerge dunque evidente come, lungi dal censurare la sentenza per uno dei tassativi motivi indicati nell’art. 360 c.p.c., gli odierni ricorrenti in realtà sollecitano, contra ius e cercando di superare i limiti istituzionali del giudizio di legittimità, un nuovo giudizio di merito, in contrasto con il fermo principio di questa Corte secondo cui il giudizio di legittimità non è un giudizio di merito di terzo grado nel quale possano sottoporsi alla attenzione dei giudici della Corte di Cassazione elementi di fatto già considerati dai giudici del merito, al fine di pervenire ad un diverso apprezzamento dei medesimi (cfr. Cass., 14/3/2006, n. 5443).

All’inammissibilità ed infondatezza dei motivi consegue il rigetto del ricorso.

Le ragioni della decisione costituiscono giusti motivi per disporsi la compensazione tra le parti delle pese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso

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