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 L’obbligo dei genitori di mantenere i figli (artt. 147 e 148 cod. civ.) sussiste per il solo fatto di averli generati e prescinde da qualsivoglia domanda, sicché nell’ipotesi in cui, al momento della nascita, il figlio sia riconosciuto da uno solo dei genitori, tenuto perciò a provvedere per intero al suo mantenimento, non viene meno l’obbligo dell’altro per il periodo anteriore alla dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale, essendo sorto sin dalla nascita il diritto del figlio naturale ad essere mantenuto, istruito ed educato nei confronti di entrambi i genitori.  Lo ha deciso la Cassazione con la Sentenza del 10 aprile 2012, n. 5652.

La vicenda de qua traeva origine dalla domanda di accertamento della filiazione naturale con conseguente richiesta di fissazione di un assegno alimentare e di condanna al risarcimento dei danni avanzata da un giovane che assumeva di essere figlio naturale del convenuto. Nell’atto introduttivo esponeva che il convenuto, venuto a conoscenza del concepimento, aveva interrotto ogni rapporto con la madre, rifiutandosi di riconoscere il figlio e di mantenerlo, con le facilmente intuibili conseguenze negative, in considerazione del non abbiente stato economico della madre.

La questione esaminata dalla S.C. ci offre lo spunto per ripercorrere brevemente i tratti salienti dell’istituto del mantenimento dei figli.

Com’è noto, l’obbligo dei genitori di provvedere al mantenimento dei figli scaturisce direttamente dall’art. 147 c.c., secondo cui Il matrimonio impone ad ambedue i coniugi l’obbligo di mantenere, istruire ed educare la prole tenendo conto delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli.

Tale obbligazione, a norma dell’articolo seguente, deve essere adempiuta dai genitori, in proporzione alle rispettive sostanze e secondo la loro capacità di lavoro professionale o casalingo. 

È pacifico che l’obbligo in parola sia ben più ampio della mera obbligazione alimentare, giungendo ad abbracciare qualsivoglia esigenza del figlio. Secondo Cass. Civ., n. 4203 del 2006, il dovere di mantenere, istruire ed educare la prole, secondo il precetto di cui all’art. 147 cod. civ., impone ai genitori, anche in caso di separazione, di far fronte ad una molteplicità di esigenze dei figli, certamente non riconducibili al solo obbligo alimentare, ma inevitabilmente estese all’aspetto abitativo, scolastico, sportivo, sanitario, sociale, alla assistenza morale e materiale, alla opportuna predisposizione – fin quando la loro età lo richieda – di una stabile organizzazione domestica, adeguata a rispondere a tutte le necessità di cura e di educazione.

Ciò premesso, sul contenuto dell’obbligo sancito all’art. 147 c.c., occorre chiedersi se esso sussista anche nei confronti del figlio maggiorenne ed in quale misura.

A tal riguardo, la giurisprudenza di legittimità ormai concordemente ritiene che l’obbligo di mantenimento non cessa automaticamente con il raggiungimento della maggiore età del figlio, ma si protrae fino a quando questi non diventi autosufficiente o sia accertato che la mancata autosufficienza economica sia da attribuirsi a sua colpa. Il rifiuto ingiustificato di attività lavorativa è idoneo ad estinguere il diritto al mantenimento del figlio (cfr. ex plurimis, Cass. Civ. n. 951 del 2005). Nello stesso senso si veda anche la posizione sostenuta da Cass. Civ., n. 1830 del 2011 in cui si è affermato che l’obbligo cessa solo ove si dia prova che il figlio ha raggiunto l’indipendenza economica, ovvero è stato posto nelle concrete condizioni per potere essere economicamente autosufficiente, senza averne però tratto utile profitto per sua colpa o per sua scelta. Tale prova, secondo i giudici di Piazza Cavour, non sarebbe comunque integrata né dal mero conseguimento di un titolo di studio, né dalla mera celebrazione di un matrimonio cui non consegua la costituzione di una nuova entità familiare autonoma e finanziariamente indipendente.

In altre parole, l’obbligo di mantenimento perdura sino al sopraggiungere di un evento che denoti il colpevole perdurare della mancanza di autosufficienza.

La giurisprudenza, al riguardo, si è, altresì, domandata quale debba essere la disciplina applicabile all’ipotesi in cui il figlio maggiorenne lasci un impiego (insoddisfacente in base alle proprie aspirazioni) e riprenda gli studi. Al riguardo, in Cass. Civ., n. 24018 del 2008 si è affermata la reviviscenza dell’obbligo di mantenimento sul presupposto che non ha colpa il figlio che rifiuta una sistemazione lavorativa non adeguata rispetto a quella cui la sua specifica preparazione, le sue attitudini ed i suoi effettivi interessi siano rivolti, quanto meno nei limiti temporali in cui tali aspirazioni abbiano una ragionevole possibilità di essere realizzate, e sempre che tale atteggiamento di rifiuto (nel proseguire a lavorare) sia compatibile con le condizioni economiche della famiglia.

Si è quindi elaborato il principio di adeguatezza professionale, secondo cui non può considerarsi quale legittima causa di cessazione dell’obbligo di mantenimento il rifiuto di qualsiasi occasione lavorativa prospettata al figlio, ma unicamente di occasioni lavorative adeguate alle inclinazioni ed aspirazioni del figlio, nonché alla formazione conseguita. A titolo di esempio, in Cass. Civ. n. 4102 del 2007, si è ritenuto che Devono continuare ad essere mantenuti dai genitori i figli maggiorenni e diplomati che non hanno trovato un impiego confacente al loro titolo di studio ma solo un “lavoro non qualificato”, come può apparire quello dell’apprendista muratore a un ragazzo quasi trentenne col titolo di geometra e ragioniere. In conformità a tale principio si è, inoltre, escluso il venir meno dell’obbligo in parola con riferimento allo svolgimento, da parte del figlio, di una attività di apprendistato, atteso che il rapporto di apprendistato si distingue, anche sotto il profilo retributivo, dagli ordinari rapporti di lavoro subordinato (cfr. Cass. Civ. n. 407 del 2007). Di contro, in Cass. Civ. n. 23596 del 2006, si è, invece, ritenuto che il conseguimento dell’abilitazione professionale per svolgere la professione di avvocato all’estero, sia idonea a legittimare un provvedimento di cessazione dall’obbligo di mantenimento per i genitori, tenuto conto che il figlio sarebbe stato posto nelle concrete condizioni per poter essere economicamente autosufficiente.

Altra questione problematica è stabilire le modalità di adempimento dell’obbligazione in parola laddove sussista una fase patologica del rapporto matrimoniale (separazione, divorzio).

A tal riguardo, si ritiene di dover richiamare gli artt 155 e 155-quinquies del codice civile che sanciscono l’obbligo per i genitori di provvedere al mantenimento dei figli, rispettivamente, minorenni e maggiorenni.

In particolare, desta particolare interesse la previsione del richiamato art. 155-quinquies, secondo cui Il giudice, valutate le circostanze, può disporre in favore dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente il pagamento di un assegno periodico. Tale assegno, salvo diversa determinazione del giudice, è versato direttamente all’avente diritto.

La disposizione in parola ha scatenato un vivace dibattito dottrinale, con riferimento alla questione dell’eventuale legittimazione del genitore convivente a percepire l’assegno di mantenimento – disposto dal giudice quando il figlio era ancora minorenne – al raggiungimento della maggiore età di quest’ultimo.

A tal riguardo, si segnala l’esistenza di un consolidato orientamento, cristallizzato in Cass. Civ., n. 21437 del 2007, secondo cui Il coniuge separato o divorziato, già affidatario del figlio minorenne, è legittimato “iure proprio”, anche dopo il compimento da parte del figlio della maggiore età, ove sia con lui convivente e non economicamente autosufficiente, ad ottenere dall’altro coniuge un contributo al mantenimento del figlio sino al momento in cui il figlio non decida di agire “in prima persona”.

Posizione, tuttavia, criticata da parte della dottrina che, infatti, ritiene che la rappresentanza legale, e, di conseguenza, la legittimazione, del genitore troverebbe giustificazione soltanto per il tempo in cui il figlio sia sprovvisto di capacità d’agire. Detta attività sostitutiva viene meno, però, laddove il figlio divenga maggiorenne (così BONAMINI T., Sul diritto al mantenimento dei figli maggiori d’età, Famiglia Persone e Successioni 2/2012).

Ulteriore questione è quella relativa all’ammissibilità del “mantenimento diretto” in luogo della corresponsione dell’assegno di mantenimento.

Al riguardo, una autorevole dottrina ritiene che il genitore non possa imporre al figlio di ricevere il mantenimento diretto in luogo dell’assegno periodico, richiamando quanto affermato da Cass. Civ., n. 38 del 1976, secondo cui il genitore non può pretendere di mantenere il figlio accogliendolo presso di lui (si veda sul punto ACHILLE D., Il mantenimento del figlio maggiorenne tra diritto positivo e prospettive di intervento legislativo, Famiglia Persone e Successioni 10/2011) . Tale soluzione sarebbe, peraltro, conforme alle posizioni assunte dalla giurisprudenza di merito (in particolare, Trib. Prato, n. 1463 del 2010), con riferimento alla diversa fattispecie dell’assegno alimentare, che – pur prevedendo l’art. 443 c.c. l’alternativa tra corresponsione di un assegno periodico e accoglimento e mantenimento presso l’obbligato – tale ultima opzione non potrebbe essere “imposta” al beneficiario, atteso che costituirebbe lesione della libertà personale di quest’ultimo.

  * * *

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LUCCIOLI Maria Gabriella – Presidente

Dott. DIDONE Antonio – Consigliere

Dott. CAMPANILE Pietro – rel. Consigliere

Dott. CRISTIANO Magda – Consigliere

Dott. SCALDAFERRI Andrea – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

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sul ricorso proposto da:

S.G.C.M. domiciliato in Roma, presso la cancelleria della Suprema Corte di cassazione; rappresentato e difeso, giusta procura speciale in calce al ricorso, dall’avv. ARENA LINA;

– ricorrente –

contro

D.I., Elettivamente domiciliato in Roma, via dei Gracchi, n. 187, nello studio dell’avv. MAGNANO GIOVANNI di San Lio;

rappresentato e difeso dall’avv. Emilio Monfrini, giusta procura speciale a margine del controricorso.

– controricorrente –

nonchè sul ricorso proposto da:

D.I. come sopra rappresentato;

– ricorrente in via incidentale –

contro

S.G.C.M. come sopra rappresentato;

– controricorrente a ricorso incidentale –

avverso la sentenza della Corte di appello di Catania, n. 654, depositata in data 13 maggio 2008;

sentita la relazione all’udienza del 10 gennaio 2012 del consigliere Dott. Pietro Campanile;

Sentito l’avv. Arena, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

Udite le richieste del Procuratore Generale, in persona del sostituto Dott. Costantino Fucci, il quale ha concluso per il rigetto del ricorso principale e dell’incidentale;

Lette le osservazioni scritte dell’avv. Arena.

Svolgimento del processo

1 – Con atto di citazione notificato in data 24 gennaio 2002 S. G. esponeva di essere figlio naturale riconosciuto di S. I., essendo nato – il (OMISSIS) – da una relazione della stessa con D.I.. Aggiungeva che costui, venuto a conoscenza del concepimento, aveva interrotto ogni rapporto con la donna, rifiutandosi, anche in seguito, di riconoscere il figlio e di mantenerlo, così costringendolo a un’esistenza, considerate le misere condizioni della madre, piena di stenti e di privazioni, nel corso della quale andava incontro a varie vicissitudini (come esperienze di natura penale e la contrazione del virus HIV), poi superate con la costituzione di un proprio nucleo familiare. Tanto premesso, chiedeva che il Tribunale di Catania, accertata detta filiazione naturale, disponesse a proprio favore un assegno mensile a titolo di alimenti ponendolo a carico del convenuto, condannando altresì costui a corrispondergli ” a titolo di restituzione o risarcimento del danno una somma pari all’assegno alimentare dovuto dal raggiungimento della maggiore età fino alla data della domanda”. 1.1 – Costituitosi il D., che chiedeva il rigetto delle domande, contestando principalmente di essere il padre naturale dell’attore, il Tribunale adito, con sentenza depositata il 20 gennaio 2006, sulla base delle prove acquisite e del sostanziale rifiuto del convenuto di sottoporsi al prelievo per l’esecuzione della disposta consulenza ematologica, accoglieva lei domanda di dichiarazione di paternità; rigettava la richiesta di assegno alimentare e, in parziale aiccoglimento della pretesa risarcitoria, in considerazione del pregiudizio di natura esistenziale inerente al periodo compreso – sulla base della specifica limitazione contenuta nell’atto introduttivo del giudizio – fra il raggiungimento della maggiore età e il momento in cui non era più configurabile un obbligo di mantenimento, liquidava, in via equitativa, la somma di Euro 25.000, con interessi e rivalutazione dalla data della domanda.

1.2 – Avverso tale decisione proponeva appello il D., eccependone in primo luogo la nullità, per omessa integrazione del contraddittorio nei confronti della propria moglie e dei suoi figli legittimi, ritenuti litisconsorti necessari, e deducendo, nel merito, l’assenza di validi elementi probatori per il riconoscimento della paternità (tenuto anche conto dei seri impedimenti che si erano verificati in occasione delle date in cui erano stati disposti i prelievi), e che, in ogni caso, non vi era stato alcun rifiuto di assistere lo S., in quanto la madre, dopo un incontro nel corso del quale egli le aveva manifestato di ritenere di non essere il padre del bambino, non si era fatta più vedere, così radicando in lui tale convinzione. D’altra parte, lo S., che aveva intrapreso il giudizio dopo aver superato il quarantesimo anno di età, risultava proprietario di un appartamento, titolare di pensione e coniugato con figli, uno dei quali già dedito ad attività lavorativa.

Instauratosi il contraddittorio, lo S. chiedeva il rigetto dell’appello proposto dal D., proponendo a sua volta impugnazione incidentale con cui, oltre a dolersi dell’incongruità per difetto della somma liquidata a titolo di risarcimento del danno, sosteneva che la richiesta di un assegno alimentare doveva essere interpretata come una componente del ristoro del pregiudizio, e, più precisamente, come rendita vitalizia ex art. 2057 c..

1.3 – La Corte di appello di Catania, con la sentenza indicata in epigrafe, rigettava tanto l’appello principale quanto quello incidentale, compensando le spese processuali.

Ritenuta infondata la tesi secondo cui il coniuge e i figli del D. erano da considerare litisconsorti necessari, in quanto priva di qualsiasi riscontro sul piano normativo, si osservava che il complesso delle risultanze probatorie era stato correttamente valutato nel senso del riconoscimento della paternità naturale in capo all’appellante principale. Da un lato venivano richiamati i riferimenti di natura documentale e testimoniale circa la relazione amorosa fra il D. e S.I. all’epoca del concepimento dell’appellato, non omettendosi di sottolineare i comportamenti tenuti anche dai congiunti del D., come quello del fratello avvocato, il quale aveva consegnato la somma di lire 500.000 alla donna, dicendole di non farsi più vedere; dall’altro veniva evidenziato il carattere pretestuoso della mancata comparizione del convenuto per sottoporsi ai prelievi ematici, così tenendo un comportamento dal quale desumere, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, significativi elementi di prova.

Quanto agli aspetti di natura risarcitoria, si e-sprimeva in primo luogo un giudizio di correttezza in merito all’interpretazione della domanda effettuata in primo grado, evidenziandosi il carattere di novità della richiesta di una rendita vitalizia.

Ribadita l’insussistenza dei presupposti per l’attribuzione di un assegno alimentare, si confermava la statuizione inerente all’accoglimento della pretesa risarcitoria in relazione alla violazione, ritenuta consapevole, di un diritto fondamentale della persona, quale quello, facente capo al figlio, di ricevere dai propri genitori assistenza materiale e morale.

Tenuto conto della limitazione della domanda al periodo successivo al raggiungimento della maggiore età dello S., valutate anche le condizioni in cui egli concretamente versava, è le difficoltà incontrate negli anni giovanili, le vicissitudini che gli avevano minato anche la salute, si esprimeva un giudizio di congruità in relazione alla somma determinata in via equitativa dal Tribunale a titolo di ristoro del pregiudizio subito dall’attore, precisandosi, anche con riferimento a difformi interprefazioni del dispositivo di condanna emerse in sede esecutiva, che la rivalutazione ed il calcolo degli interessi legali sulla somma attribuita dovevano effettuarsi a partire dalla data della domanda.

1.4 – Per la cassazione di tale decisione lo S. propone ricorso, affidato a due motivi.

Il D. si difende con controricorso, proponendo a sua volta ricorso incidentale, affidato a due motivi, cui lo S. resiste con controricorso.

La difesa del ricorrente ha presentato osservazioni scritte all’esito delle conclusioni del pubblico ministero, ai sensi dell’art. 379 c.p.c., u.c.

Motivi della decisione

2 – Deve preliminarmente disporsi la riunione dei ricorsi, ai sensi dell’art. 335 c.p.c., in quanto proposti avverso la medesima decisione.

2.1 – Con il primo motivo del ricorso principale si denuncia “errata e comunque ingiusta valutazione equitativa del danno”. Si duole lo S. dell’omessa considerazione delle conseguenze della violazione dei doveri inerenti all’assistenza, alla cura, al mantenimento e all’istruzione del figlio, nonchè della contraddizione consistente nella descrizione, nella sentenza impugnata, dei pregiudizi di natura esistenziale e patrimoniale subiti soprattutto durante la sua sfortunata giovinezza e della modestia dell’importo liquidato, specificandosi che la limitazione nella domanda del termine iniziale da considerare ai fini risarcitori, fatto coincidere con il raggiungimento della maggiore età, voleva “significare che il danno lamentato era un danno permanente legato alla perdita di chances per un inserimento dignitoso nella vita sociale e quindi lavorativa”. Sotto tale profilo si evidenzia che la richiesta modalità di liquidazione non costituiva, come erroneamente ritenuto dai giudici del merito, una domanda nuova.

Viene quindi formulato il seguente quesito: “Postocchè l’attore ha dimostrato con le prove documentali ed orali ivi compresa la mancata presentazione a rendere l’interrogatorio formale del convenuto D.I., il risarcimento del danno patrimoniale e morale conseguente alle sofferenze inflitte e costituite dalla lesione di valori inerenti alla persona e costituzionalmente garantiti dovrà essere supportato da una motivazione congruente e logica da giustificare un risarcimento adeguato ai valori della vita contemporanea. I principi di diritto vengono attinti dall’art. 1226 c.c. e art. 2057 c.c.. La motivazione offerta dalla Corte di appello di Catania e fedelmente ricopiata da quella data dal Tribunale di Catania con la sentenza n. 136/06 non si può ritenere adeguata, coerente o proporzionata a sorreggere e giustificare il capo di sentenza con il quale è stata accordata la liquidazione del danno nella misura di Euro 25.000,00, sia perchè il danno è stato limitato a pochi anni di insufficiente capacità lavorativa del figlio, mentre le prove offerte davano una visione definitiva e radicale del danno esistenziale e biologico da intendere o riferire all’intero arco della vita, sia perchè tra i due momenti decisori si intravede una scissione ed una contraddizione che non si possono ricondurre al principio della valutazione equitativa del danno”. 2.2 – Con il secondo motivo si afferma che la compensazione delle spese del giudizio di secondo grado sarebbe errata ed ingiusta, con riferimento all’omessa considerazione dell’assoluta infondatezza dei motivi di appello formulati dal D.. Viene indicato il seguente; quesito di diritto: “In considerazione dell’assoluta infondatezza e pretestuosità dell’atto di impugnazione della sentenza di primo grado pronunciata dal tribunale di Catania in data 20 gennaio 2006, le spese e gli onorari del giudizio debbono essere posti a carico della parte che ha promosso il giudizio di appello ancorchè l’appellato abbia proposto appello incidentale su una questione di rilevante valore morale e sociale che il giudice di primo grado aveva valutato ed accolto sia pure parzialmente”. 3 – Il ricorso principale è inammissibile.

Debbono, infatti, trovare applicazione, per essere stata impugnata una sentenza depositata in data 13 maggio 2008, le disposizioni del D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, (in vigore dal 2 marzo 2006 sino al 4 luglio 2009), con particolare riferimento all’art. 6, che ha introdotto l’art. 366 bis c.p.c.. Alla stregua di tali disposizioni – la cui peculiarità rispetto alla già esistente prescrizione della indicazione nei motivi di ricorso della violazione denunciata consiste nella imposizione di una sintesi originale ed autosufficiente della violazione stessa, funzionalizzata alla formazione immediata e diretta del principio di diritto al fine del miglior esercizio della funzione nomofilattica – l’illustrazione dei motivi di ricorso, nei casi di cui all’art. 360, comma 1, nn. 1, 2, 3 e 4, deve concludersi, a pena di inammissibilità, con la formulazione di un quesito di diritto che, riassunti gli elementi di fatto sottoposti al giudice di merito e indicata sinteticamente la regola di diritto applicata da quel giudice, enunci la diversa regola di diritto che ad avviso del ricorrente si sarebbe dovuta applicare nel caso di specie, in termini tali per cui dalla risposta che ad esso si dia discenda in modo univoco l’accoglimento o il rigetto del gravame.

Analogamente, nei casi di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’illustrazione del motivo deve contenere (cfr. ex multis: Cass. Sez. Un. n. 20603 del 2007; Cass., n. 16002 del 2007; Cass., n. 8897 del 2008) un momento di sintesi – omologo del quesito di diritto – che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità. 3.1 – Tanto premesso, deve porsi in evidenza come il quesito relativo al primo motivo, così riflettendo, anzi, accentuando quella mescolanza di questioni di merito con pretese violazioni di legge che caratterizza l’intera illustrazione delle doglianze, e in tal modo configurando piuttosto un treno di generiche lamentazioni che una censura formulata nel rispetto dei canoni normativi, contiene, in maniera indistinta, riferimenti sia alla motivazione della decisione impugnata, sia ai principi di diritto, per il vero non perspicuamente individuati, asseritamente violati, in maniera tale da non consentire, non essendo concepibile alcuna risposta di segno positivo o negativo, di accedere all’esame delle questioni che si agitano nell’ambito di una così dolorosa vicenda. Le Sezioni unite di questa Corte hanno affermato che i quesiti di diritto imposti dall’art. 366 bis c.p.c., introdotto dal D.Lgs. n. 40 del 2006, “rispondono alla esigenza di soddisfare l’interesse del ricorrente ad una decisione della lite diversa da quella cui è pervenuta la sentenza impugnata, ed al tempo stesso, con più ampia valenza, di enucleare, collaborando alla funzione nomofilattica della Corte di Cassazione, il principio di diritto applicabile alla fattispecie. Il quesito di diritto costituisce, pertanto, il punto di congiunzione tra la risoluzione del caso specifico e l’enunciazione del principio giuridico generale, risultando altrimenti inadeguata, e quindi – non ammissibile, l’investitura stessa del Giudice di legittimità” (per tutte, Cass. S.U. n. 3519 del 2008; n. 22640 del 2007; n. 14385 del 2007).

Pertanto, ognuno dei quesiti formulati per ciascun motivo di ricorso deve consentire l’individuazione del principio di diritto che è alla base del provvedimento impugnato e, correlativamente, del diverso principio la cui auspicata applicazione ad opera di questa Corte di Cassazione possa condurre ad una decisione di segno diverso.

Il quesito deve poi costituire la chiave di lettura delle ragioni esposte e porre la Corte in condizione di rispondere ad esso con l’enunciazione di una regula iuris che sia, in quanto tale, suscettibile di ricevere applicazione in casi ulteriori rispetto a quello sottoposto all’esame del Giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata.

La giurisprudenza di questa Corte esclude, quindi, che possano proporsi motivi cumulativi e, comunque, che si concludano con un quesito che non permetta di riferirlo in modo chiaro ed univoco ad uno di essi (Cass. n. 5471 del 2008; n. 1906 del 2008) e che non evidenzi l’elemento strutturale della norma che si assume violata, non consistendo in una chiara sintesi logico – giuridica della questione sottoposta, formulata in termini tali per cui dalla risposta – negativa od affermativa – che ad esso si dia, discenda in modo univoco l’accoglimento od il rigetto del gravame (Cass. S.U., n. 20360 del 2007).

3.2 – Analoghe considerazioni vanno svolte in relazione al secondo motivo, non senza rilevare che la censura non sembra cogliere la ratio decidendi, fondata, ai fini della compensazione delle spese processuali, sulla reciproca soccombenza.

4 – Con il primo motivo del ricorso incidentale si denuncia violazione ed errata interpretazione dell’art. 276 c.c., ribadendosi l’eccezione di nullità per omessa integrazione del contraddittorio nei confronti della moglie e dei figli legittimi del D..

P.Q.M. 

La Corte riunisce i ricorsa; dichiara inammissibile il ricorso principale, rigetta l’incidentale. Dichiara interamente compensate le spese processuali relative al presente giudizio di legittimità.

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