La diffusione sulla rete internet – da parte dell'ex convivente – di riprese video relative a rapporti sessuali intrattenuti con il partner configura il delitto di Interferenze Illecite nella vita privata di cui all'art. 615-bis c.p. comma 2. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. Pen., con la sentenza nr. 7361 del 24 febbraio 2012.
A tal riguardo, giova ricordare che la disposizione richiamata contiene al suo interno due distinte fattispecie incriminatrici: la prima – contenuta nel primo comma – concerne l'ipotesi della cd. “interferenza” o “indiscrezione”; la seconda – contenuta nel secondo comma – concerne la più grave ipotesi di “rivelazione” o “diffusione”.
La Suprema Corte, pertanto, ha configurato l'ipotesi delittuosa prevista sub art. 615-bis comma 2, atteso che l'imputato non si era limitato a procurarsi indebitamente le riprese video de quibus, bensì aveva successivamente diffuso le stesse in rete attraverso programmi di condivisione file.
Sembra qui doveroso precisare che il delitto descritto al comma 2 dell'art. 615-bis c.p. compie un rinvio integrale – quanto ai presupposti – al comma precedente. Di conseuguenza, la condotta di “rivelazione” e “diffusione” non può che presupporre quella di “interferenza” o “indiscrezione”.
Richiamiamo, dunque, in via preliminare il testo dell'art. 615-bis c.p. 1° comma, secondo cui Chiunque, mediante l'uso di strumenti di ripresa visiva o sonora, si procura indebitamente notizie o immagini attinenti alla vita privata svolgentesi nei luoghi indicati nell'articolo 614, è punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni.
In particolare, desta l'attenzione il limite “spaziale” costituito dal riferimento espresso ai luoghi indicati nell'art. 614 c.p. (abitazione altrui, altro luogo di privata dimora e le appartenenze di essi). A tal riguardo, tuttavia, precisiamo che la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto di dover “estendere” il concetto di domicilio fatto proprio dall'art. 615-bis c.p., in quanto è stato ritenuto che la lesione della riservatezza può pertanto consumarsi, attraverso illecite interferenze anche nei locali ove si svolge il lavoro dei privati (studio professionale, ristorante, bar, osteria, negozio in genere). La facoltà di accesso da parte del pubblico non fa venire meno nel titolare il diritto di escludere singoli individui non autorizzati ad entrare o a rimanere (Cass. pen. Sez. V Sent., 05/12/2005, n. 10444).
Sul punto si sono pronunciate, peraltro, altresì le Sezioni Unite della Cassazione che, infatti, hanno specificato che il concetto di domicilio individua un particolare rapporto con il luogo in cui si svolge la vita privata, in modo da sottrarre la persona da ingerenze esterne, indipendentemente dalla sua presenza (Cass. Pen. SS. UU., 26795/2006)
La disposizione de qua, inoltre, specifica che le immagini e le notizie devono essere ottenute indebitamente e, secondo l'interpretazione dominante, la condotta, per essere penalmente rilevante, dovrebbe essere avvenuta con l'inganno o contro la volontà espressa o tacita di chi ha lo ius excludendi.
Per quanto, invece, concerne l'ipotesi della “divlugazione-diffusione” di cui al secondo comma dell'art. 615-bis c.p. occorre rilevare che la disposizione richiamata testualmente recita: Alla stessa pena soggiace, salvo che il fatto costituisca più grave reato, chi rivela o diffonde, mediante qualsiasi mezzo di informazione al pubblico, le notizie o le immagini ottenute nei modi indicati nella prima parte di questo articolo.
Il discrimen tra rivelazione e diffusione va ricercato nel numero dei destinatari: nel primo caso i destinatari sono persone determinate, nel secondo caso ci si riferisce a un numero indeterminato di persone.
La giurisprudenza, peraltro, aveva già configurato il reato de quo con riferimento all'ipotesi in cui la condotta criminosa fosse tenuta dal coniuge della vittima, atteso che ciò che rileva è la violazione della riservatezza domiciliare della persona offesa, non la disponibilità di quel domicilio anche da parte dell'autore dell'indebita intercettazione né il suo rapporto di convivenza coniugale con la vittima, nè ancora le ragioni di allarme che ne hanno motivato il comportamento (Cass. pen. Sez. V, 08/11/2006, n. 39827)
In conclusione, la sentenza della Corte qui commentata non fa altro che riconfermare l'orientamento dominante in merito alla rilevanza penale – sotto il profilo dell'art. 615-bis comma 2° – della diffusione a terzi di notizie e/o immagini attinenti alla vita privata di un individuo.
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REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DE MAIO Guido – Presidente
Dott. PETTI Ciro – Consigliere
Dott. MARINI Luigi – Consigliere
Dott. ROSI Elisabetta – Consigliere
Dott. GAZZARA Santi – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
V.L., nato a (OMISSIS);
Avverso la sentenza emessa in data 7 Aprile 2011 dalla Corte di Appello di Milano, che, in parziale riforma della sentenza exart. 442 c.p.p. in data 13 Gennaio 2010, del Tribunale di Sondrio, Sezione distaccata di Morbegno, ha dichiarato non doversi procedere in relazione al reato contestato al capo A) della rubrica per difetto di querele e ha riqualificato il reato contestato al capo B) ai sensi dell'art. 615-bis c.p., comma 2, e quindi rideterminato la pena in relazione al reato continuato in un anno e quattro mesi di reclusione, confermando nel resto la prima sentenza;
Fatti di reato commessi in epoca successiva e prossima all' (OMISSIS);
Sentita la relazione effettuata dal Consigliere L.M.;
Udito il Pubblico Ministero nella persona del Cons. .., che ha concluso per la inammissibilità del ricorso;
Udito il Difensore, Avv. .., in sostituzione dell'Avv. .., che ha concluso per l'accoglimento del ricorso.
Con sentenza emessa al termine di rito abbreviato in data 13 Gennaio 2010, il Tribunale di Sondrio, Sezione distaccata di Morbegno, ha condannato il Sig. V. alla pena di un anno e sei mesi di reclusione, nonchè al risarcimento dei danni in favore della parte civile, perchè ritenuto colpevole in relazione all'ipotesi ex art.81 cpv c.p. dei reati previsti da: A) art. 615-bis c.p., commi 1 e 2; B) D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 26, comma 1, e art. 167, commi 1 e 2; C) art. 595 c.p., commi 1 e 3, reati commessi in danno della Sig.ra P.S. in epoca successiva e prossima all'(OMISSIS).
Il Tribunale ha, altresì, condannato l'imputato al risarcimento dei danni in favore della parte civile e determinato una provvisionale immediatamente esecutiva pari a 15.000,00 Euro.
Il Tribunale ha ritenuto provato che l'imputato, che aveva avuto una relazione sentimentale con la querelante poi interrotta, avesse all'interno dell'abitazione della persona offesa indebitamente fotografato e filmato condotte relative a rapporti sessuali intrattenuti dalla vittima con lui, avesse successivamente mostrato le riprese a P.M. e quindi diffuso le stesse su internet per mezzo di programma di condivisione, così offendendo la reputazione della querelante.
Avverso tale decisione il Sig. V. ha proposto appello i cui articolati motivi sono stati oggetto di specifico esame da parte della
Corte di Appello di Milano con riferimento ai singoli capi d'imputazione.
Con riferimento al capo A), la Corte territoriale ha ritenuto che la querela presentata dalla persona offesa nel mese di ottobre 2006 sia stata proposta fuori termine e l'azione penale risulti improcedibile.
Quanto al capo B), la Corte territoriale ha proceduto ex art. 597 c.p.p., comma 3 a diversamente qualificare il fatto e ricondurlo alla più grave ipotesi prevista dall'art. 615-bis c.p., comma 2. Come ampiamente illustrato a pag. 7 della motivazione, i giudici di appello hanno ritenuto provato che l'imputato mostrò a P. M. il filmato (poi consegnato alla vittima e da costei distrutto) che riprendeva il rapporto sessuale intrattenuto con la persona offesa; che uno spezzone del filmato fu collocato su internet, e da qui scaricato su incarico della vittima che ai primi di ottobre ne fu notiziata da un avventore del bar da lei gestito, e allegato alla querela; infine, che dopo la perquisizione negativa subita dall'imputato qualcuno inviò in forma anonima e da una cabina telefonica, situata nei pressi dell'officina del Sig. V., un messaggio sms alla Sig.ra P.M. del tenore: “ero preparato Io rido, Vi conviene?”, messaggio la cui origine può essere ricondotta proprio all'imputato. La condotta di immissione del filmato in rete senza il consenso della persona ripresa in ambiente privato integra, dunque, il più grave reato ex art. 615-bis c.p., comma 2, e non quello meno grave contestato inizialmente al capo B);
rispetto a tale reato la querela risulta tempestivamente proposta.
La Corte territoriale ha, infine, ritenuto che i reati sub B) e C) concorrano tra loro e non risulti alcuna ipotesi di assorbimento, così che ha applicato l'istituto della continuazione e fissato la pena in un anno e quattro mesi di reclusione, con conferma delle statuizioni civili.
Avverso tale decisione il Sig. V. propone ricorso tramite il Difensore, in sintesi lamentando:
1. Errata applicazione di legge e vizio di motivazione ex art. 606 c.p.p., lett. b) ed e) per avere la Corte di Appello ritenuto “indebita” l'apprensione delle immagini nonostante in motivazione affermi con chiarezza che la persona offesa era consapevole delle riprese e ad esse consenziente;
2. Vizio di motivazione ex art. 606 c.p.p., lett. e) in relazione all'assenza di prova certa che il filmato sia stato immesso in rete proprio dal ricorrente, posto che non vi è prova che il filmato presente su internet sia parte di quello ripreso dal ricorrente, che la stessa persona offesa ha dichiarato di non aver potuto accertare se fosse stato il ricorrente a inserirlo in rete e che la perquisizione presso il domicilio del ricorrente rimase senza esito.
Sussiste, poi, vizio ulteriore di motivazione per illogicità dell'affermazione che il filmato effettuato dal ricorrente sia stato immesso nella rete quando nè la persona offesa nè il Pubblico Ministero ne hanno acquisito e prodotto una copia;
3. Errata applicazione dell'art. 597 c.p.p., comma 5, in relazione alla mancata concessione della sospensione condizionale della pena e all'assenza di ragioni che possano impedire una prognosi favorevole.
Con memoria depositata in data 4 gennaio 2012 la parte civile osserva:
quanto al primo motivo, le sentenze di merito affermano che il consenso era stato prestato alla effettuazione di fotografie e non alla videoripresa, che dunque può considerarsi abusivamente effettuata, e che la Corte di Appello non ha escluso la sussistenza dell'ipotesi D.Lgs. n. 196 del 2003, ex art. 167, ma ha ritenuto l'illecito assorbito nel più grave reato ex art. 615-bis c.p.;
quanto al secondo e terzo motivo, si tratta di censure in fatto e come tali inammissibili.
La differente valutazione in ordine alle condotte relative al capo A), e la rilevanza di tale elemento rispetto all'intera vicenda, che emergono dalla sentenza di appello rispetto a quella di primo grado, nonchè il contenuto del ricorso impongono alla Corte di esaminare anche la motivazione della prima decisione, emessa al termine di rito abbreviato.
In sintesi, dalla motivazione della sentenza del Tribunale emerge il convincimento del giudicante in ordine, tra le altre, alle circostanze che:
la persona offesa prestò consenso, successivamente, al rapporto sessuale, allo scatto di alcune fotografie, ma non venne informata delle riprese video-audio che il ricorrente effettuò posizionando su modalità di registrazione l'apparecchio fotografico elettronico in uso; nel mese di gennaio 2006 il Sig. V. mostrò il filmato alla Sig.ra P.M. e prospettò l'ipotesi di mettere il filmato stesso in rete;
– più volte anteriormente all'ottobre 2006 il Sig. V. aveva rivolto alla persona offesa minacce e insulti, anche richiamando l'esistenza del video.
Tali circostanze vengono poste dal Tribunale a fondamento della convinzione che il filmato immesso nella rete e qui rinvenuto nell'ottobre del 2006 sia stato nella disponibilità del ricorrente e da costui utilizzato in modo improprio.
Muovendo da queste premesse, e dunque dall'assenza del consenso della persona offesa alla realizzazione di un filmato poi parzialmente diffuso, la ricostruzione solo in parte coincidente operata dalla Corte di Appello non si pone in contrasto con la qualificazione giuridica che i giudici dell'appello hanno attribuito ai fatti.
Sul punto la Corte osserva che risultano del tutto infondate le censure mosse dal ricorrente alla ricostruzione che conduce alla attribuibilità del filmato posto in rete alla condotta a lui contestata: i giudici di merito hanno fornito a tale proposito una motivazione fondata sugli elementi di fatto sopra ricordati che vengono interpretati in modo non illogico, e dunque non censurabile in sede di legittimità.
Così giudicate manifestamente infondate le censure in ordine all'accertamento dei fatti e alla loro qualificazione giuridica, la Corte deve affrontare il profilo del ricorso che censura la mancata applicazione della sospensione della pena. Deve osservarsi che tale censura risulta inammissibile perchè proposta per la prima volta in questa sede. Infatti, il ricorrente non ebbe a sollevare la questione in sede di dichiarazione d'appello: il quinto motivo di appello, l'unico che affronta i temi legati al trattamento sanzionatorio, non contiene una doglianza relativa alla mancata sospensione della pena.
Inoltre, una richiesta in tal senso non risulta formalizzata neppure in sede di conclusioni davanti la Corte di Appello (verbale di udienza del 7 Aprile 2011).
Si rileva, infine, che il ricorrente censura in modo del tutto generico la mancata concessione del beneficio ex art. 597 c.p.p., non prospettando nè una mancata risposta della Corte territoriale ad esplicita richiesta, nè evidenziando ragioni specifiche che avrebbero richiesto l'esercizio dei poteri officiosi da parte del giudicante; il motivo va, sotto questo profilo, ritenuto generico ex art. 581 c.p.p., lett. c) e art. 591 c.p.p., lett. c).
Sulla base delle considerazioni fin qui svolte il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con conseguente condanna del ricorrente, ai sensi dell'art. 616 c.p.p., al pagamento delle spese del presente grado di giudizio.
Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data del 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza “Versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, nonchè al versamento della somma di Euro 1.000,00 alla Cassa delle ammende.