La Cassazione Civile, con la sentenza nr. 1781 dell’8 febbraio 2012, si pronuncia nuovamente sulla questione della riconoscibilità di una sentenza straniera con cui venga concesso un risarcimento notevolmente superiore a quanto richiesto dalla parte attrice, ribadendo che nel nostro ordinamento il risarcimento del danno deve essere riconosciuto in relazione all’effettivo pregiudizio subito dal titolare del diritto leso.
La vicenda de qua traeva origine da un’azione di risarcimento intentata da un lavoratore negli Stati Uniti relativamente ai danni subiti in relazione ad un infortunio sul lavoro. La Corte Suprema del Massachussets aveva condannato le società convenute (italiane) a corrispondere ciascuna al lavoratore l’importo di cinque milioni di dollari (elevati, poi, a otto, a fronte degli interessi maturati), nonostante la richiesta dell’attore non superasse i trecentocinquantamila dollari.
L’attore, a questo punto, adiva la Corte d’Appello di Torino per chiedere che le pronunce fossero riconosciute e dichiarate efficaci in Italia.
La Corte d’Appello, dichiarava efficace in Italia una sola delle summenzionate pronunce, ritenendo che non sussistessero ragioni ostative per il riconoscimento della sentenza Statunitense.
Di diverso avviso la Cassazione che, con la sentenza in commento, ha cassato la pronuncia della Corte Sabauda, ritenendo che la sentenza de qua non potesse essere riconosciuta nel nostro ordinamento per contrarietà con l’ordine pubblico.
Segnatamente all’accertamento del suddetto requisito, la Corte ha richiamato i principi consolidati in materia di risarcimento del danno ed, in particolare, ha chiarito che:
a) Il nostro ordinamento subordina il diritto al risarcimento del danno alla prova di un concreto pregiudizio economico (cfr. Cass. n. 15184 del 2008)
b) Deve rimanere estranea al nostro sistema l’idea della punizione del responsabile civile, per cui appare indifferente la valutazione a tal fine della sua condotta (Cass. n. 1183 del 2007);
c) La valutazione della natura e finalità punitiva dell’eccessività dell’importo liquidato dal giudice straniero si risolve in un apprezzamento di fatto del giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità se adeguatamente motivato.
Sulla base di tali principi, la Corte ha ritenuto viziata la sentenza impugnata sotto il profilo motivazionale, ritenendo che questa si fosse discostata, senza giustificate ragioni, dal precedente orientamento della Cassazione, cristallizzato in Cass. Civ., n. 1183 del 2007, secondo cui: non sono risarcibili i c.d. danni punitivi, in quanto la loro funzione sanzionatoria contrasta con i principi fondamentali dell’ordinamento interno, che assegna alla responsabilità civile una funzione ripristinatoria della sfera patrimoniale del soggetto leso.
Dobbiamo, tuttavia, sottolineare che, fermo restando il riconoscimento della natura compensativa e non punitiva del nostro sistema di responsabilità civile, negli ultimi anni la Corte di Cassazione aveva, con due significative pronunce, di fatto, aperto uno spiraglio all’affermazione di una funzione anche sanzionatoria dell’istituto del risarcimento dei danni.
Con riferimento ad un’ipotesi di risarcimento danni da illecito sfruttamento dell’immagine di un giovane ballerino da parte di una scuola di ballo, la Cassazione, con la Sentenza n. 11353 del 2010, ha affermato che: l’illecita pubblicazione dell’immagine altrui obbliga al risarcimento anche dei danni patrimoniali, che consistono nel pregiudizio economico di cui la persona danneggiata abbia risentito per effetto della predetta pubblicazione e di cui abbia fornito la prova. In ogni caso, qualora – come accade soprattutto se il soggetto leso non è persona nota – non possano essere dimostrate specifiche voci di danno patrimoniale, la parte lesa può far valere (conformemente ad un principio recepito dall’art. 128 della legge 22 aprile 1941, n. 633, novellato dal d.lgs. 16 marzo 2006, n. 140, non applicabile alla specie “ratione temporis”) il diritto al pagamento di una somma corrispondente al compenso che avrebbe presumibilmente richiesto per concedere il suo consenso alla pubblicazione, determinandosi tale importo in via equitativa, avuto riguardo al vantaggio economico presumibilmente conseguito dell’autore dell’illecita pubblicazione in relazione alla diffusione del mezzo sul quale la pubblicazione è avvenuta, alle finalità perseguite e ad ogni altra circostanza congruente con lo scopo della liquidazione. (Cassa con rinvio, App. Roma, 06/06/2005). Di fatto, pur utilizzando uno strumento “tipico” quale la retroversione degli utili, aveva manifestato una prima intenzione di ampliare la sfera del risarcimento del danni, superando l’idea secondo cui l’autore del fatto illecito è obbligato a risarcire il solo pregiudizio arrecato al danneggiato.
In una successiva pronuncia, Cass. Civ., n. 8730 del 2011, ci si spinge ancora più avanti affermando che: in tema di risarcimento dei danni patrimoniali conseguenti all’illecito sfruttamento del diritto d’autore, ai fini della valutazione equitativa del danno determinato dalla perdita del vantaggio economico che il titolare del diritto avrebbe potuto conseguire se avesse ceduto a titolo oneroso i diritti dell’opera, si può ricorrere al parametro costituito dagli utili conseguiti dall’utilizzatore abusivo, mediante la condanna di quest’ultimo alla devoluzione degli stessi a vantaggio del titolare del diritto. Con tale criterio, la quantificazione del risarcimento, più che ripristinare le perdite patrimoniali subite, svolge una funzione parzialmente sanzionatoria, in quanto diretta anche ad impedire che l’autore dell’illecito possa farne propri i vantaggi. (Cassa con rinvio, App. Roma, 23/11/2009).
In conclusione, con la pronuncia in commento la Suprema Corte si discosta sensibilmente dalle due pronunce da ultimo richiamate – che, come detto, si erano mostrate favorevoli al riconoscimento di una qualche funzione sanzionatoria del risarcimento del danno – ribadendo la funzione esclusivamente compensativo-riparatoria dell’istituto de quo.
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REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. LUCCIOLI Maria Gabriella – Presidente
Dott. FORTE Fabrizio – Consigliere
Dott. DI PALMA Salvatore – Consigliere
Dott. GIANCOLA Maria C. – rel. Consigliere
Dott. BISOGNI Giacinto – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 24553-2010 proposto da:
R.. (c.f. (OMISSIS)), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CICERONE 49, presso l’avvocato PASTACALDI MARCO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato MAURIZIO COSSA, giusta procura a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
O.R.L.;
– intimato –
avverso la sentenza n. 1280/2009 della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il 29/09/2009;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 15/12/2011 dal Consigliere Dott. MARIA CRISTINA GIANCOLA;
udito, per la ricorrente, l’Avvocato MAURIZIO COSSA che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. RUSSO Libertino Alberto che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
Con atto notificato in data 30 marzo 2006 sia alla R. che alla R., O.L. adiva la Corte di appello di Torino e premesso anche che la Corte Suprema di Cambridge in Massachussets (USA), con due identiche sentenze, rese il 7 aprile 2004, nel procedimento (OMISSIS), aveva condannato le società convenute a pagargli ciascuna la somma di dollari americani 5.000.000,00, oltre interessi dal 7 settembre 1997 al 7 aprile 2004, pari a dollari americani 3.951.815,40, relativamente ai danni da lui subiti per infortunio sul lavoro, chiedeva che le suddette pronunce fossero riconosciute e dichiarate efficaci in Italia.
Con sentenza del 18-29.09.2009, la Corte di appello di Torino dichiarava il riconoscimento e l’efficacia in Italia della sola sentenza emessa nei confronti della R., posta in liquidazione.
La Corte territoriale osservava e riteneva:
– che la domanda dell’ O., ritualmente notificata e qualificabile L. 31 maggio 1995, n. 218, ex artt. 67 e 64, doveva essere accolta, sta
nte la sussistenza di tutti i requisiti del riconoscimento in Italia;
– che le due società (produttrici del macchinario di cui si assumeva la difettosità) erano state (successivamente) convenute dall’ O. R., in qualità di responsabili dirette (a titolo di responsabilità da prodotto causativa di un infortunio sul lavoro, non scevro di profili di astratta rilevanza anche penale), in forza di atti denominati di “terza (spa) e quarta (srl) istanza emendata” contenenti domande di condanna nei loro confronti per fatti già oggetto di un giudizio pendente fin dal settembre 1997, nel quale si erano regolarmente costituite in qualità di terze chiamate dalle società americane convenute, mentre erano state dichiarate contumaci rispetto alle istanze di chiamata diretta;
– che le due sentenze in esame, emesse il 7 aprile 2004 ed allegate in copia autentica con “apostille” ai sensi della convenzione dell’Aja del 5 ottobre 1961 e traduzione asseverata, erano state dichiarate esecutive il 26 ottobre 2004 e non risultavano impugnate nel termine massimo consentito dallo Stato estero;
– che la R. aveva obiettato che, indipendentemente dalla sussistenza di tutti gli altri requisiti, le sentenze in oggetto non avrebbero potuto essere riconosciute per difetto del presupposto di cui alla L. n. 218 del 1995, art. 64, lett. g), in quanto contrarie all’ordine pubblico, nei suoi aspetti tanto processuali quanto sostanziali;
– che, in particolare, avrebbero ostato al riconoscimento tanto la carenza assoluta di motivazione delle medesime (tanto più eclatante a fronte dell’entità economica della condanna), quanto l’imputabilità della massima parte dell’importo in condanna ad una voce sostanzialmente riconducibile al cd. “danno punitivo” punitive damages); vale a dire, ad una categoria giuridica estranea all’ordinamento italiano e con esso incompatibile, come più volte affermato dalla giurisprudenza anche di legittimità;
– che non vi erano adeguati elementi a riscontro del fatto che il pur ingente importo riconosciuto in linea capitale (5 milioni) fosse ascrivibile proprio a tale componente della fattispecie risarcitoria.
– Che in fatto era indubbio che la liquidazione del danno punitivo non poteva nel caso di specie desumersi, se non dando inammissibilmente ingresso a considerazioni meramente presuntive ovvero addirittura congetturali, dalla sola entità dell’importo in condanna;
– che doveva essere considerato che la somma riconosciuta in linea capitale dal giudice statunitense aveva indubbiamente tenuto conto dell’oggettiva gravità del fatto rappresentato dall’infortunio sul lavoro occorso, nel pomeriggio del 29 ottobre ’96, all’ O. R., all’epoca trentasettenne;
– che, in effetti, notevole era il divario tra la somma liquidata in sentenza e l’importo dei danni quantificati nell’atto di citazione (dollari 330.677), ma tale divario non poteva dimostrare alcunchè in ordine alla effettiva attribuzione nella specie di un risarcimento a titolo di “danno punitivo”, solo considerando sia che l’importo chiesto concerneva esclusivamente le spese mediche documentate, ospedaliere e non, la perdita delle retribuzioni salariali documentate e le ulteriori spese mediche che verosimilmente l’ O. avrebbe dovuto ancora sopportare e sia che esulavano espressamente dalla quantificazione attorea ulteriori voci di danno, riconducibili alla “estensione della lesione, alla disabilità totale, alla lesione permanente”, sicchè il maggior importo riconosciuto del giudice statunitense avrebbe potuto trovare ragionevole giustificazione, pur in assenza di richiamo all’istituto del danno punitivo, nella considerazione di altre componenti personali di danno, insite nella giovane età del soggetto, nella consistente e permanente diminuzione della sua capacità lavorativa, nel pregiudizio di tipo biologico e di relazione sociale;
– che non si doveva affrontare il merito della responsabilità e della liquidazione (pacificamente estraneo alla cognizione del giudice del riconoscimento della sentenza straniera) ma – assai più limitatamente – prendere atto di come nessun elemento potesse nella specie univocamente fondare l’incompatibilità del richiesto riconoscimento con i principi generali della responsabilità civile recepiti dall’ordinamento nazionale;
– che non valeva obiettare che l’impossibilità di provare la suddetta incompatibilità dipendeva proprio dal fatto che entrambe le sentenze in questione erano assolutamente prive di motivazione, limitandosi a fare riferimento alla regolare dichiarazione di contumacia delle società convenute nonchè, ma soltanto in via implicita e per obiter dictum, al valore di sostanziale ammissione di responsabilità che da tale contumacia scaturiva;
– che la sentenza straniera priva di motivazione (anche “radicalmente” priva) non precludeva per ciò solo il riconoscimento, atteso che tale elemento della sentenza era richiesto unicamente nell’ambito dell’ordinamento nazionale e la sua mancanza, nemmeno per quest’ultimo, poteva di per sè risultare ostativa alla formazione del giudicato sul decisum;
– che peraltro il riconoscimento poteva operare nei soli confronti della sentenza di condanna emessa a carico della Ruffinatti Srl;
– che l’efficacia in Italia della sentenza doveva essere riconosciuta nei limiti di una sola liquidazione, pari a 5 milioni oltre agli interessi già liquidati dal 7 settembre ’97 al 7 aprile 2004, pari ad ulteriori 3.951.815,40 (interessi di cui la società convenuta aveva lamentato la “usurarietà”, ma la cui quantificazione non avrebbe potuto essere sindacata se non in forza di una valutazione di merito ad essa preclusa; fatta salva l’osservazione che tale importo, in base all’ordinamento nazionale, doveva comunque ritenersi comprensivo altresì della rivalutazione monetaria, assunta quale componente “normale” della reintegrazione patrimoniale da fatto illecito di danno alla persona). Avverso questa sentenza la società R. ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi e notificato il 18.10.2010 all’ O., che non ha svolto attività difensiva.
Motivi della decisione
A sostegno del ricorso la società Ruffinatti denunzia:
1. “Violazione o falsa applicazione della L. 31 maggio 1995, n. 218, art. 64, lett. g), e dell’art. 2727 cod. civ. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, nonchè omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5”.
In ordine alla mancata riconduzione della condanna estera al danno punitivo, sostiene che la decisione della Corte d’Appello è censurabile sotto più profili ed in particolare perchè:
– è stata omessa qualsiasi spiegazione in merito alla decisione di non dare ingresso alle presunzioni espressamente previste tra le prove disciplinate dal codice civile all’art. 2727 e seguenti;
– è del tutto contraddittoria, dal momento che (mentre da un lato esclude la presunzione per delineare la figura del danno punitivo, dall’altro in altri passi fa ampio ricorso alle presunzioni, ed in specie laddove esclude la configurabilità di interessi usurari o ove m ritiene che il danno possa presuntivamente essere ascritto ad altre componenti personali di danno (danno biologico o da vita di relazione) sulla base della gravità del fatto;
– non ha considerato il decisivo, fondamentale e noto fatto che negli Stati Uniti la disciplina del danno punitivo viene generalmente applicata e la condanna di tipo punitivo viene comminata con un sistema di calcolo che prescinde dalle sofferenze effettivamente patite dal danneggiato;
– risultava che il giudizio si era svolto in contumacia, circostanza che negli Stati Uniti è ritenuta riprovevole e meritevole di sanzione punitiva;
– è altresì contraddittoria ed errata laddove afferma testualmente che “il richiamo al precedente di cui Cass. 19 gennaio 2007 n. 1183 cit., non era calzante, quando, invece, era esattamente in termini;
– ha rilevato che erano rimasti ignoti le norme e i principi che erano stati adottati per pervenire, in punto quantum, alla condanna, sicchè dalla sentenza statunitense non era possibile, a causa della inesistente motivazione, individuare i criteri adottati per determinare e qualificare il danno e quindi quantificarlo;
– non ha adeguatamente valutato il fatto che si trattava di condanna ad importo pari a 20 volte il chiesto, non assimilabile al sistema italiano di risarcimento del danno.
2. “Violazione e/o falsa applicazione della L. 31 maggio 1995, n. 218, art. 64, lett. g), art. 644 cod. pen. e art. 360 c.p.c., n. 3, nonchè omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5”.
Premesso anche che gli interessi in misura usuraria nel nostro paese sono contrastanti con l’ordine pubblico, tanto da essere penalmente censurati (art. 644 c.p.), e che quindi ne deve essere impedito l’ingresso nel nostro ordinamento, deduce che l’impugnata sentenza non è congruamente e logicamente motivata laddove giustifica e presume che la misura degli interessi possa derivare da rivalutazione monetaria.
Il primo motivo del ricorso è fondato; al relativo accoglimento segue l’assorbimento del secondo motivo d’impugnazione.
La L. 31 maggio 1995, n. 218, di Riforma del sistema italiano di diritto internazionale, all’art. 64, lett. g), che sola rileva ai fini decisori, dispone (in linea con l’art. 16, comma 1, del medesimo testo normativo) che la sentenza straniera è riconosciuta in Italia quando “le sue disposizioni non producono effetti contrari all’ordine pubblico” (in tema, cfr cass. n. 17349 del 2002).
In ordine all’accertamento di questo requisito, e segnatamente alle regole di ordine pubblico riferibili al tema in esame, inerente al risarcimento del danno da responsabilità extracontrattuale, si richiamano i principi di diritto già affermati da questa Corte, che vanno condivisi, stanti anche le esigenze fondamentali di non discriminazione e di tutela di aspettative, equilibri e garanzie collettive cui presiedono, ed ai quali, dunque, va data continuità, secondo cui:
a) “nel vigente ordinamento il diritto al risarcimento del danno conseguente alla lesione di un diritto soggettivo non è riconosciuto con caratteristiche e finalità punitive, ma in relazione all’effettivo pregiudizio subito dal titolare del diritto leso, nè il medesimo ordinamento consente l’arricchimento se non sussista una causa giustificatrice dello spostamento patrimoniale da un soggetto ad un altro; ne consegue che, pure nelle ipotesi di danno “in re ipsa”, in cui la presunzione si riferisce solo all'”an debeatur” (che presuppone soltanto l’accertamento di un fatto potenzialmente dannoso in base ad una valutazione anche di probabilità o di verosimiglianza secondo l'”id quod plerumque accidit”) e non alla effettiva sussistenza del danno e alla sua entità materiale, permane la necessità della prova di un concreto pregiudizio economico ai fini della determinazione quantitativa e della liquidazione del danno per equivalente pecuniario” (cfr. cass. n. 15814 del 2008; n. 25820 del 2009). b) “rimane estranea al sistema interno l’idea della punizione e della sanzione del responsabile civile ed è indifferente la valutazione a tal fine della sua condotta” (cfr cass. n. 1183 del 2007), principio questo specificamente riferito, seppure nella vigenza della pregressa normativa in tema di delibazione di sentenze straniere, alla verifica di compatibilità con l’ordinamento italiano della condanna estera al risarcimento dei danni da responsabilità extracontrattuale;
c) che l’apprezzamento del giudice nazionale sull’eccessività (o meno) dell’importo liquidato per danni dal giudice straniero e l’attribuzione (o meno) alla condanna, anche per effetto di tale valutazione di natura e finalità punitiva e sanzionatoria alla stregua dell’istituto dei cosiddetti “punitive damages”, si risolvono in un giudizio di fatto, riservato al giudice della delibazione e insindacabile in sede di legittimità se congruamente e logicamente motivato (cfr cass. n. 1183 cit).
Alla luce di tali principi di diritto l’impugnata sentenza si rivela viziata per il profilo motivazionale.
La Corte distrettuale ha riconosciuto la pronuncia estera in base essenzialmente ai seguenti rilievi, dei quali i primi due tratti dal dato testuale ed il terzo congetturale:
– l’assenza di motivazione non osta al riconoscimento;
– nella liquidazione del risarcimento la pronuncia estera non fa espresso riferimento al danno punitivo, che potrebbe ostare al riconoscimento in questione, come invece, aveva fatto la pronuncia n. 1183 del 2007 resa da questa Corte, su analogo tema;
– la natura e l’entità dei danni dall’ O. subiti nell’infortunio sul lavoro erano compatibili con l’importo attribuitogli a titolo di ristoro, in aggiunta a quello da lui espressamente reclamato con la domanda, essendo stata questa riferita a specifiche ma non esaustive voci di pregiudizio.
Le ragioni valorizzate a sostegno dell’avversata conclusione appaiono singolarmente e nel loro complesso insufficienti, oltre che incongruenti nell’individuazione del punto di discostamento della fattispecie esaminata dal menzionato precedente di legittimità, evidentemente smentito dal tenore di tale decisione.
Quanto all’insufficienza argomentativa, non sintomatica appare l’assenza nella pronuncia straniera di esplicito rinvio all’istituto del punitive damages, a fronte sia della mancanza di qualsiasi indicazione positiva circa la causa giustificativa della statuita attribuzione patrimoniale e sia dell’omesso richiamo in essa e nella impugnata sentenza a regole legali e/o criteri esteri propri della liquidazione del danno in questione e nella specie applicabili, i quali non risultano esplicitati nemmeno negli atti e difese dell’ O., pure in relazione alla causa petendi ed al petitum da lui dedotti dinanzi al giudice statunitense. In ogni caso, nella verifica della contrarietà o meno della sentenza straniera all’ordine pubblico interno, considerati anche i rilevati limiti del petitum nella diversa sede, i giudici di merito si sono affidati al mero riscontro della compatibilità dell’intero ammontare della condanna straniera con la natura e la gravità dei danni subiti dall’ O., e, dunque, ad una valutazione puramente astratta, apodittica, concretante mera illazione, quando invece, seguendo tale impostazione, avrebbero dovuto dare anche conto della ragionevolezza e proporzionalità del liquidato in sede estera in rapporto non solo alle specificità dell’illecito ed alle patite conseguenze, ma anche in confronto dei criteri risarcitori interni.
Pure la mancanza di motivazione nella sentenza straniera, che in linea di principio non integra in sè una violazione dell’ordine pubblico (cfr. cass. n. 9247 del 2002; n, 3365 del 2000), non può mantenere un significato neutro ai fini del riconoscimento in Italia, nel caso, quale quello di specie, in cui in relazione al rapporto sostanziale di riferimento si renda necessario ai fini della verifica di compatibilità con l’ordine pubblico interno,e cioè degli effetti sulla nostra realtà, conoscere i criteri legali in concreto applicati dal giudice straniero nell’adozione della pronuncia, e segnatamente, con riferimento al tema controverso, quelli seguiti per qualificare la responsabilità e le conseguenti voci di danno ristorabili, onde evincere la causa giustificatrice dell’attribuzione e la sua natura civilistica che sola consente il riconoscimento, nonchè per quantificare la somma dovuta a titolo risarcitorio, e, nell’ipotesi di corresponsabilità nell’illecito, per addossare e ripartire le conseguenze riparatorie, onde evitare indebite duplicazioni e locupletazioni.
Conclusivamente si deve accogliere il primo motivo del ricorso, con assorbimento del secondo motivo, e cassare la sentenza impugnata con rinvio alla Corte di appello di Torino, in diversa composizione, cui si demanda anche la pronuncia sulle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo del ricorso, assorbito il secondo, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte di appello di Torino, in diversa composizione.