Le parti hanno il dovere di stare in giudizio proponendo tesi difensive sostenute da prove oggettivamente valide e non vanificando, con atteggiamenti dilatori e irrispettosi, il lavoro svolto dal giudice e dalla controparte. In caso contrario il Giudice può condannarle a pagare alla controparte una somma equitativamente determinata.
È quanto emerge dalla recente sentenza del 18 gennaio 2013 del Tribunale di Pordenone, pronunciata nell’ambito di un giudizio di accertamento dell’avvenuto recesso ex art. 1385 c.c. e di condanna al pagamento del doppio della caparra confirmatoria versata dall’attore.
Il Giudice friulano, nella vicenda de qua, aveva ritenuto che la palese infondatezza e pretestuosità delle difese ed eccezioni sollevate dalla società convenuta integrasse un abuso del diritto costituzionale di resistere in giudizio ed una grave violazione del diritto (costituzionale) della controparte di agire in giudizio. Pertanto, condannava la convenuta ad una sanzione d’ufficio pari all’importo delle spese di lite così come liquidate, ai sensi dell’art. 96 comma 3 c.p.c.
Com’è noto, l’art. 96 c.p.c., III° comma è stato introdotto dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, al fine esplicito di rafforzare le sanzioni per l’uso distorto degli strumenti processuali. Ora, infatti, il Giudice ha la facoltà di condannare la parte soccombente – anche d’ufficio – al pagamento di una somma equitativamente determinata a favore della controparte, in aggiunta all’eventuale condanna alla rifusione delle spese processuali.
Nelle prime applicazioni della giurisprudenza di merito, l’istituto in esame è stato espressamente applicato come una vera e propria sanzione privata, con evidente scostamento rispetto alla struttura tipica dell’illecito civile (T. Pordenone 18.3.2011; T. Varese 30.10.2009). Si tratterebbe, quindi, di una vera e propria condanna punitiva (come ritenuto correttamente nella sentenza qui commentata), irrogata dall’autorità giudiziaria ma a diretto vantaggio di un soggetto privato, per uso distorto degli strumenti processuali, sulla scia dei cd. punitive damages tipici dei sistemi di common law.
In conclusione, dall’analisi dei precedenti sopra richiamati e della sentenza di seguito trascritta emerge una chiara tendenza della giurisprudenza ad interpretare l’art. 96 III° c.p.c., alla stregua di una vera e propria misura sanzionatoria a vantaggio della parte vincitrice, a prescindere, quindi, dall’esistenza di un danno effettivo subito da quest’ultima.
* * *
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
MOTIVI DELLA DECISIONE
A proposito della conclusione esposta nell’atto di citazione “Dichiararsi la risoluzione per fatto e colpa di parte convenuta del contratto preliminare 13/6/08 e per l’effetto condannarsi la medesima a pagare agli attori ex art. 1385 ce. la capitale somma di € 60.000,00 pari al doppio della caparra versata, oltre interessi dalla domanda al saldo”, la società convenuta, promittente venditrice verso gli attori di una futura unità abitativa, individuata su pianta, come da preliminare in data 13.6.2008, ha sostenuto nella propria comparsa di costituzione che “la richiesta di condanna” rivolta nei suoi confronti “al pagamento del doppio della caparra” ricevuta di euro 30.000,00 sarebbe infondata non solo in fatto bensì inammissibile per evidenti ragioni di diritto, in quanto gli attori, con l’azione giudiziale esperita, non avrebbero in realtà “esercitato il diritto di recesso ex art. 1385 ce. che attribuisce alla parte adempiente di ottenere il doppio di quanto pagato in sede dì sottoscrizione contrattuale, bensì” avrebbero postulato soltanto “la pronuncia di risoluzione giudiziale del contratto”.
Si tratta di una interpretazione che non può essere condivisa.
Nonostante l’uso, nella parte relativa alle conclusioni meritali, di un lessico giuridico non molto corretto, non si può dubitare seriamente che volontà effettiva degli attori, coniugi, sia stata quella di esercitare, attraverso lo strumento, appunto, dell’atto introduttivo, quella facoltà di rescissione contrattuale (atecnicamente, di risoluzione) che la legge attribuisce al contraente non inadempiente in dipendenza del fatto – nella specie incontestato – che, al
momento della conclusione del contratto stesso, l’una parte abbia dato all’altra una somma a titolo di caparra.
Invero, siffatta interpretazione è imposta, anzitutto, dalla stessa formulazione conclusiva apprezzata nella sua globalità: l’uso della parola “dichiarare” risulta coerente con la deduzione di effetto di accertamento sul rapporto, mentre non lo è con l’eventualità della deduzione di un effetto schiettamente costitutivo, quale, appunto, è quello correlato alla domanda di risoluzione giudiziale di un rapporto giuridico; l’uso delle parole “per fatto e colpa” appare compatibile con l’evocazione del requisito soggettivo della imputabilità dell’inadempimento, imputabilità che è presupposta dalla legge non solo ai fini dell’azione di risoluzione contrattuale ex art. 1453 c e . ma anche ai fini della legittimità, da accertare, del recesso che venga esercitato ex art. 1385 c e ; la consequenziale richiesta di condanna nei confronti della convenuta promittente non appare, del resto, associata a parole come “risarcire”, “risarcimento” o “danno”, bensì viene riferita ad un oggetto che corrisponde esattamente al contenuto effettuale predeterminato a mente del paradigma normativo, viepiù espressamente menzionato, di cui all’art. 1385 c e .
Inoltre, siffatta interpretazione trova riscontro anche nella considerazione – doverosa –
dell’atto di citazione nel suo complesso, le cui premesse non contengono la benché minima, neppure generica, rappresentazione di un pregiudizio concreto in relazione al lamentato altrui inadempimento, così come neppure recano mai locuzioni come “danno” o “risarcimento”, viceversa richiamando l’antefatto costituito della missiva di novembre 2009 con la quale gli attori avevano stragiudizialmente “anticipato” alla cionvenuta, con linguaggio atecnico ma dal contenuto inequivocabile, la loro volontà nel senso che, nel caso di inutile decorso del termine fissato per la consegna dell’immobile loro promesso in vendita, la costruzione del quale, d’altro canto, come da essi rilevato, non era stata neppure iniziata, avrebbero considerato “risolto per fatto e colpa Vostra il contratto preliminare de quo” e “conseguentemente richiesto il doppio della caparra”, evidente ed essenziale obiettivo pratico, quest’ultimo, della preannunciata intenzione attorea (v. d o c 3, fase att.).
Dato atto, a questo punto, che la domanda indicata in via principale nella prima memoria attorea ex art. 183, 6° comma, c.p.c. costituisce una semplice, e quindi ammissibile, precisazione della stessa domanda già rassegnata in citazione, donde si verte su una azione di accertamento della legittimità del recesso ex art. 1385 ce. con correlata condanna al pagamento del doppio della caparra, non resta che prendere in esame l’ulteriore eccezione svolta dalla convenuta promittente, secondo cui il contrato preliminare fra le parti si sarebbe risolto ipso iure per impossibilità sopravvenuta e definitiva della prestazione da lei dovuta.
A detta della convenuta, la mancata consegna dell’immobile agli attori, promissari acquirenti, entro il termine pattuito del 31.12.2009 non potrebbe esserle imputata in quanto sotto la superficie del sedime ove doveva essere, da lei stessa, edificata la costruzione, era emersa, durante le opere prodromiche, la presenza di un ordigno bellico inesploso; tale circostanza, da lei ignorata al tempo della stipula del compromesso, aveva “comportato l’intervento di diverse amministrazioni pubbliche, le quali” avrebbero “impedito” alla convenuta, proprietaria dell’area, qualsiasi tipo di intervento attuativo del programma negoziale.
Ma la dimensione effettiva del presunto evento impossibilitante, anche in relazione al presunto comportamento ostacolante che la convenuta ha inteso attribuire in termini ellittici alle “diverse amministrazioni pubbliche” coinvolte nel necessario intervento di bonifica, non risulta affatto descritta nella comparsa di risposta, che è poi l’unico atto meritale svolto dalla convenuta.
Quest’ultima, d’altro canto, con la seconda memoria ex art. 183 c.p.c. nulla ha chiesto di provare in relazione a tali profili, limitandosi invece a richiedere la conferma testimoniale di una circostanza totalmente irrilevante, oltre che articolata in modo generico (“Vero che l’Immobiliare Nicole ha scoperto successivamente all’11.6.2008 l’esistenza di una bomba inesplosa sotterrata nel! ‘area oggetto di edificazione”).
Dalla documentazione depositata dalla stessa convenuta (v. doc. 4), nulla, poi, può essere ricavato a conforto della ipotesi dedotta di sopravvenuta impossibilità incolpevole, addirittura definitiva, ad adempiere all’obbligazione assunta con il contratto preliminare: piuttosto, si evince che la competente autorità militare aveva partecipato alla società convenuta (v. missiva in data 23.12.2008) la propria disponibilità ad attuare il lavoro di
bonifica del sedime – già – a partire dal mese di gennaio 2009 (fermo l’onere economico a
carico della convenuta stessa, come in precedenza resole noto dalla locale autorità prefettizia con comunicazione in data 16.12.2008).
Altrimenti detto, non è dato conoscere alcunché in ordine al comportamento concreto della convenuta, ovvero in ordine a specifiche e concrete difficoltà dalla stessa eventualmente incontrate, nel tempo, tutt’altro che breve, che trascorse fra l’inizio di gennaio 2009 e la fine di quello stesso anno, allorquando cioè la convenuta avrebbe dovuto essere effettuare la consegna agli attori dell’immobile promesso in vendita un anno e mezzo prima (meritando peraltro rilevare come gli attori, già a novembre 2009, ossia poco prima della scadenza, nella loro missiva a cui più sopra si è già fatto cenno, avessero lamentato il fatto – non contestato dalla convenuta – che “ad oggi i lavori non sono stati neppure iniziati di talché è matematicamente impossibile che il termine venga onorato'”).
Per le ragioni sinora esposte, non sussiste alcuno spazio per ritenere dimostrato il verificarsi di una causa non imputabile alla convenuta, concretamente idonea e sufficiente da sola a rendere impossibile – come asserito dalla convenuta stessa – in modo definitivo e totale la prestazione corrispettiva da lei dovuta.
Atteso, allora, che il concetto di impossibilità sopravvenuta ha lo stesso significato che nell’art. 1218 cc. viene indicato in relazione alla responsabilità per inadempimento, non resta che rilevare come l’inadempimento ascritto dagli attori, non inadempienti, a carico della convenuta debba essere – giocoforza – considerato un inadempimento soggettivamente imputabile, donde la legittimità del recesso operato dagli attori e il diritto ad essi spettante ad ottenere dalla convenuta il pagamento del doppio della caparra data.
Pertanto, la società convenuta viene condannata a pagare agli attori la somma di euro
60.000,00, oltre agli interessi moratori, al saggio previsto dall’art. 1284 c e , con decorrenza dal 17.2.2010 (giorno di perfezionamento per il destinatario della notificazione della domanda giudiziale) fino al saldo, oltre alle spese processuali, liquidate come in dispositivo ai sensi del D.M. Giustizia 20.7.2012, n. 140 – pubbl. nella G.U., Serie Generale, 22.8.2012, n. 195, applicabile anche alle cause già pendenti (art. 41 : «Le disposizioni di cui al presente decreto si applicano alle liquidazioni successive alla sua entrata in vigore.»; art. 42: «Il presente decreto entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana.»; cfr., altresì, l’art. 9, d.l. 24.1.2012, n. 1, come sost. dalla 1. Di conversione, 1. 24.3.2012, n. 27).
L’infondatezza e la natura formalistica del rilievo sollevato dalla società convenuta in ordine alla ammissibilità della domanda attorea, la genericità degli assunti svolti dalla convenuta in rapporto all’ipotizzata risoluzione ipso iure del contratto a norma dell’art. 1463 cc. e, infine, l’incoerenza della sua condotta processuale in rapporto proprio alla suddetta ipotesi, stante che, pur avendo asserito competere agli attori “solo ed esclusivamente la restituzione della somma di Euro 30.000,00 pari alla caparra versata”, la convenuta nulla ha poi effettivamente corrisposto agli attori, integrano, valutate nel loro insieme, un contesto che risulta rivelatore del carattere manifestamente pretestuoso della resistenza esplicata dalla convenuta e, in ultima analisi, di un abuso del diritto costituzionale di resistere in giudizio e di una grave violazione del corrispondente diritto di azione della controparte, anch’esso tutelato dagli artt. 24 e 111 Cost. e dall’art. 6 CEDU: tale condotta, siccome ispirata a finalità dilatorie, il Tribunale ritiene meritevole di una sanzione d’ufficio, attingendo allo scopo al bacino della responsabilità processuale aggravata prevista dall’art. 96 c.p.c, segnatamente non già dal suo primo comma bensì dal terzo, introdotto dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, con il quale ha trovato (finalmente) ingresso nell’ordinamento una fattispecie a carattere sanzionatorio, che prende le distanze dalla struttura tipica dell’illecito civile per confluire nelle cd. condanne punitive (v. Trib. Varese, 30.10.2009, n. 1094).
Pertanto, la società convenuta viene condannata d’ufficio a pagare in favore degli attori una somma equamente determinata in misura esattamente corrispondente all’entità del compenso professionale liquidato in dispositivo.
PER QUESTI MOTIVI
Il Tribunale di Pordenone, ogni contraria e diversa istanza, deduzione ed eccezione disattesa, definitivamente pronunciando nella causa in epigrafe, così provvede:
1) accerta la legittimità del recesso ex art. 1385 cc. esercitato dagli attori L.A. e E.P. rispetto al contratto preliminare di compravendita immobiliare di cui alla scrittura privata in data 13.6.2008 stipulato fra gli stessi, quali promissari, e la convenuta Immobiliare N. S.r.L, quale promittente, e, per l’effetto, condanna la predetta società a pagare agli attori A. e P. la somma di euro 60.000,00, oltre interessi legali ex at. 1284 c e con decorrenza dal 17.2.2010 al saldo;
2) condanna la società convenuta a rifondere agli attori le spese processuali, liquidate in complessivi euro 4.103,77 (di cui euro 3.500,00 per compensi; euro 76,33 per spese imponibili ed euro 527,44 per spese esenti), oltre c.p.a. ed i.v.a. (come per legge);
3) condanna la convenuta N. S.r.L a pagare agli attori, a titolo di sanzione ex art. 96, 3° comma, c.p.c, la somma di euro 3.500,00.
Così deciso in Pordenone, il 18 gennaio 2013
Il Giudice