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La I Sezione della Corte di Cassazione, con sentenza n. 15609/14, si occupa di un interessante caso relativo alla configurabilità o meno del danno morale nei confronti di una S.r.l., che aveva subito un’illegittima segnalazione alla Centrale Rischi.


La Corte d’Appello aveva avuto modo di rilevare come presupposto della segnalazione non fosse né l’esistenza di un credito in sé, né uno stato di conclamata insolvenza, bensì “la ragionevole ed oggettiva opinione che il credito non possa essere soddisfatto in tempi congrui, sulla base di un sospetto qualificato dalla presenza degli elementi sintomatici dell’inadempimento”.
Nel caso di specie il credito non risultava esigibile e vi erano contestazioni anche sull’importo dovuto alla banca, in relazione agli interessi calcolati.
Era inoltre emerso che non vi erano elementi da cui si potesse desumere una situazione di pericolo, perché, alla data della segnalazione, il credito era assistito da due fideiussioni personali e da garanzia reale e, nel gennaio del medesimo anno (1997), era stato accordato un finanziamento ampiamente restituito sino ad allora, senza che nessun nuovo fatto negativo fosse emerso.
Secondo il Giudice del gravame, la condotta tenuta dalla banca, la quale, nel gennaio 1998, aveva revocato il fido, dopo che la cliente aveva comunque manifestato la volontà di risolvere il rapporto, e concesso un giorno di tempo per il rientro, era da ritenersi contraria a buona fede ed atta a giustificare ex post l’avvenuta segnalazione, avvenuta il 17 novembre 1997.
Secondo la Suprema Corte, la sentenza impugnata si è conformata all’orientamento consolidato, secondo cui:
“a) ai fini dell’obbligo di segnalazione che incombe sulle banche, il credito può essere considerato in sofferenza allorché sia vantato nei confronti di soggetti in istato di insolvenza, anche non accertato giudizialmente o che versino in situazioni sostanzialmente equiparabili, nozione che non si identifica con quella dell’insolvenza fallimentare, dovendosi far riferimento ad una valutazione negativa della situazione patrimoniale, apprezzabile come “grave difficoltà economica” (Cass., 10 ottobre 2013, n. 23093 e 12 ottobre 2007, n. 21428);
b) la segnalazione di una posizione in sofferenza non può scaturire dal mero ritardo nel pagamento del debito o dal volontario inadempimento, ma deve essere determinata dal riscontro di una situazione patrimoniale deficitaria, caratterizzata da una grave e non transitoria difficoltà economica equiparabile, anche se non coincidente, con la condizione d’insolvenza (Cass. 1 aprile 2009, n. 7958)”.
Sotto il profilo del danno non patrimoniale, che qui interessa, nel corso del giudizio è stato accertato che vi fu pregiudizio alla reputazione della società, posto che era dimostrato, a mezzo dei testimoni escussi, come le banche fossero venute a conoscenza della segnalazione (la Cariplo, infatti, respinse la richiesta di aumento del fido e l’Istituto San Paolo lo revocò).
In tal modo, secondo la Corte d’Appello, “la società aveva subito la rinuncia, almeno temporale, a piani di espansione, avendo l’errata segnalazione inciso sulla libera concorrenza ed avvantaggiato altre aziende del settore, con conseguente perdita di competitività sul mercato per le occasioni commerciali sfumate, ed avendo il c.t.u. accertato le difficoltà in cui si trovò ad operare la società; inoltre, le energie psico-fisiche, facenti capo agli amministratori della società, erano state per un certo tempo dirottate verso l’individuazione di altre fonti di finanziamento e, quindi, sottratte al reperimento di nuovi clienti o all’acquisizione di altre commesse, con conseguenze reddituali e con danno non patrimoniale costituito dal patema e dallo “stress” di reperire in breve tempo fonti alternative di finanziamento”.
I Giudici di Piazza Cavour hanno confermato la sentenza de qua, richiamando i “principi costanti che riconoscono, in ipotesi di illegittima segnalazione del debitore alla centrale rischi, sia il danno non patrimoniale alla persona, anche giuridica, con riguardo ai valori della reputazione e dell’onore (essendo anche i soggetti collettivi titolari dei diritti della personalità a tutela costituzionale ex art. 2 Cost.), sia il danno al patrimonio, che può essere oggetto della prova presuntiva, quale conseguenza per l’imprenditore di un peggioramento della sua affidabilità commerciale, essenziale anche per l’ottenimento e la conservazione dei finanziamenti, con lesione del diritto ad operare sul mercato secondo le regole della libera concorrenza (cfr., per tali principi, le decisioni Cass. 30 agosto 2007, n. 18316; 4 giugno 2007, n. 12929; 18 aprile 2007, n. 9233; 28 giugno 2006, n. 14977; 3 aprile 2001, n. 4881; 23 marzo 1996, n. 2576; v. pure Cass. 18 settembre 2009, n. 20120, in tema di assicurazione contro i danni).
In particolare, anche nei confronti dell’ente collettivo è configurabile la risarcibilità del danno non patrimoniale, intesa come qualsiasi conseguenza pregiudizievole di un illecito che, non prestandosi ad una valutazione monetaria basata su criteri di mercato, non possa essere oggetto di risarcimento ma di riparazione: allorquando, cioè, il fatto lesivo incida su di una situazione giuridica dell’ente che sia equivalente ai diritti fondamentali della persona umana garantiti dalla costituzione (Cass. 1 ottobre 2013, n. 22396; 12 dicembre 2008, n. 29185; 4 giugno 2007, n. 12929)”.

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE I CIVILE
Sentenza 6 giugno – 9 luglio 2014, n. 15609
(Presidente Forte – Relatore Nazzicone)
Svolgimento del processo
Con sentenza del 24 maggio 2007, la Corte d’appello di Roma, in parziale riforma della sentenza definitiva del 25 novembre 2004 del Tribunale della stessa città, ha condannato la Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a. al risarcimento del danno in favore della Gesis s.r.l. nella misura di Euro 100.000,00, oltre interessi dal deposito della sentenza al saldo, per illegittima segnalazione del nominativo della società alla centrale di rischi.
La Corte ha ritenuto, sulla base della disciplina della materia, che la segnalazione dei rischi operata dalla banca fu illecita.
Ha premesso che presupposto della segnalazione non è né l’esistenza di un credito in sé, né uno stato di conclamata insolvenza, ma la ragionevole ed oggettiva opinione che il credito non possa essere soddisfatto in tempi congrui, sulla base di un sospetto qualificato dalla presenza degli elementi sintomatici dell’inadempimento.
Ha poi argomentato nel senso che il credito non era, nella specie, esigibile e che vi era controversia tra le parti sull’importo dovuto alla banca, quanto agli interessi calcolati; che, quindi, non vi era alcun inadempimento e che da nessun elemento emergeva una situazione di pericolo, anche perché il credito di L. 142.000 sussistente alla data della segnalazione del 17 novembre 1997 era assistito dalle fideiussioni personali di P.F. e T.P. e da garanzia reale, mentre nel gennaio dello stesso anno era stato accordato un finanziamento ampiamente restituito sino ad allora, senza che nessun nuovo fatto negativo fosse emerso; ha aggiunto che la società aveva rapporti contrattuali significativi con grandi società di servizi.
La banca, quindi, allorché nel gennaio 1998 aveva revocato il fido, dopo che la cliente aveva comunque manifestato la volontà di risolvere il rapporto, e concesso un giorno di tempo per il rientro, appariva aver tenuto una condotta contraria a buona fede, atta piuttosto a giustificare ex post l’avvenuta segnalazione.
Con riguardo, in particolare, al quantum del risarcimento, ha escluso la debenza del danno da lucro cessante (Euro 593.925, secondo il tribunale) e ridotto il danno emergente (Euro 290.920, secondo il tribunale): infatti, la società aveva proseguito la sua attività, con fatturato pressoché immutato; dopo tre anni, i soci avevano posto la società in liquidazione e costituito la Gesis Italia 2000 s.r.l., utilizzando la medesima denominazione, evidentemente reputata non compromessa, ma anzi desiderabile presso la clientela.
Ha determinato, dunque, in via equitativa il danno alla reputazione commerciale e non patrimoniale nella misura di Euro 100.000,00, ai valori attuali e comprensivo degli interessi per la tardiva disponibilità della somma.
Avverso questa sentenza ha proposto ricorso per cassazione la Gesis s.r.l., sulla base di due motivi.
Resiste la banca con controricorso, proponendo ricorso incidentale affidato a nove motivi.
Motivi della decisione
1. – Preliminarmente va disposta la riunione dei ricorsi, ai sensi dell’art. 335 c.p.c., in quanto proposti avverso la medesima decisione.
2. – Con il primo motivo, la ricorrente deduce la “violazione e/o falsa applicazione di norma di diritto”, lamentando la liquidazione equitativa del danno ex art. 1226 c.c. in misura difforme da quanto accertato dalla c.t.u., che lo aveva determinato in un’entità assai maggiore (Euro 884.843,00), e senza distinguere danni patrimoniali e non patrimoniali.
Con il secondo motivo, lamenta l’”insufficiente e contraddittoria motivazione”, avendo la corte d’appello ridotto l’entità del risarcimento disposto in primo grado, senza indicare i presupposti del suo convincimento e pur dopo avere affermato che la segnalazione alla centrale dei rischi aveva compromesso la reputazione della società determinando anche un danno patrimoniale.
3. – Con il primo motivo del ricorso incidentale, la banca deduce l’omessa motivazione sul fatto decisivo, ex art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c., consistente nell’avere il giudice di primo grado posto a base della decisione, nel reputare illegittima la segnalazione alla centrale dei rischi, circostanze di fatto (lo stato complessivo della situazione patrimoniale del debitore verso le banche) non corrispondenti a quelle allegate dalla società (l’insussistenza dell’insolvenza).
Con il secondo motivo, censura la violazione o falsa applicazione degli art. 112 e 342 c.p.c., ex art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c., per avere la sentenza impugnata omesso l’esame del motivo di appello, concernente la circostanza che il giudice di prime cure ha recepito una nozione di insolvenza, rilevante ai fini della segnalazione, diversa da quella allegata dall’attore nella sua domanda.
Con il terzo motivo, deduce la nullità della sentenza per mancata pronuncia sul motivo predetto, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c..
Con il quarto motivo, deduce la carenza o contraddittorietà della motivazione sul fatto decisivo della sussistenza dei presupposti per la segnalazione a sofferenza, avendo la corte d’appello, da un lato, considerato le circostanze irrilevanti dell’elevato target della clientela della società o del maggior credito passato della banca, e, dall’altro lato, trascurato di considerare che gli anticipi su fatture, rispettivamente di L. 60.000.000 (fattura di L. 81.000.000 circa) e di L. 20.000.000 (fattura di L. 62.000.000 circa), non erano stati rimborsati, o almeno non sui conti correnti appositamente aperti presso la banca; ed i conti presentavano saldi negativi di complessive L. 142.000.000 (85 milioni e 57 milioni) superiori alla garanzia pignoratizia concessa, la quale si era ridotta notevolmente per cessione di parte dei titoli; quanto alle ragioni della contestazione del credito della banca, il riferimento alla “nota sentenza della Cassazione che vietava l’anatocismo e la capitalizzazione trimestrale” era inconferente, posto che i fatti di causa risalivano a due anni prima della sentenza n. 12507 del 1999 della Corte.
Con il quinto motivo, censura la carenza o contraddittorietà della motivazione sul fatto decisivo della determinazione delle voci di danno risarcibile, non avendo adeguatamente valorizzato la circostanza che risultava variato solo il fido erogato mediante anticipazione su fatture e revocato il fido dell’Istituto San Paolo, che i testi avevano escluso altre revoche di finanziamenti, e che comunque queste non producono in sé un danno, mentre vi è un lasso temporale prima della evidenziazione della segnalazione sul sistema.
Con il sesto motivo, deduce la violazione o falsa applicazione degli art. 1223, 1226 e 2697 c.c., in quanto mancava la prova dell’an del pregiudizio, non risultando la contrazione del fatturato, né l’incidenza sull’attività sociale della dedotta revoca dei finanziamenti.
Con il settimo motivo, deduce la violazione o falsa applicazione degli art. 1223, 2059 c.c. e 112 c.p.c., in quanto la Gesis s.r.l. non aveva mai chiesto la liquidazione del danno non patrimoniale, né alle persone giuridiche può riconoscersi un danno da patema d’animo o da stress, neppure in astratto; non vi era, inoltre, accertamento della lesione di diritti inviolabili della persona costituzionalmente garantiti da ricondurre all’art. 2059 c.c..
Con l’ottavo motivo, censura la nullità della sentenza, per avere essa pronunciato in relazione alla ricordata domanda risarcitoria, non proposta.
Con il nono motivo, la ricorrente incidentale deduce la carenza di motivazione su fatto decisivo e controverso, con riguardo alla configurabilità di un danno non patrimoniale della persona giuridica costituito da patema e stress nel reperire finanziamenti.

4. – Il ricorso principale è inammissibile, per violazione dell’art. 366 bis c.p.c..
4.1. – Il primo motivo contiene, infatti, un quesito di diritto affatto generico, con il quale si chiede alla Corte se sia vero che la corte territoriale “ha operato una valutazione equitativa del danno ex art. 1226 c.c. illegittima poiché in assenza dei presupposti per farne ricorso e motivata in modo insufficiente e contraddittorio” o “addirittura non motivata”.

Secondo la giurisprudenza consolidata (e plurimis, Cass. 7 marzo 2012, n. 3530), il quesito inerente ad una censura in diritto – dovendo assolvere alla funzione di integrare il punto di congiunzione tra la risoluzione del caso specifico e l’enunciazione del principio giuridico generale – non può essere meramente generico e teorico, ma deve essere calato nella fattispecie concreta, per mettere la corte in grado di poter comprendere dalla sua sola lettura, l’errore asseritamente compiuto dal giudice di merito e la regola applicabile.

Il mancato rispetto della prescrizione rende il motivo inammissibile.

4.2. – Il secondo motivo, che attiene al vizio di motivazione, a sua volta si palesa inammissibile per mancanza del c.d. momento di sintesi, posto che secondo la costante giurisprudenza di questa Corte (e multis, Cass. 20 maggio 2013, n. 12248; 18 novembre 2011, n. 24255; sez. un., 1 ottobre 2007, n. 20603), nei ricorsi per cassazione avverso i provvedimenti pubblicati dopo l’entrata in vigore del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40 ed impugnati per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, secondo l’art. 366 bis c.p.c. da tale decreto legislativo introdotto, la censura formulata ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c. deve contenere un momento di sintesi (omologo del quesito di diritto) che ne circoscriva puntualmente i limiti.

5. – Il primo, il secondo ed il terzo motivo del ricorso incidentale, censurando tutti, sotto il profilo dell’art. 360, primo comma, n. 3, 4 e 5 c.p.c., l’omesso esame di un motivo di appello, vanno congiuntamente esaminati.
Occorre ricordare che la decisione del giudice di secondo grado, la quale non esamini e non decida un motivo di censura della sentenza impugnata, è ricorribile per cassazione non già per omessa o insufficiente motivazione su di un punto decisivo della controversia, o per violazione di legge, ma per omessa pronuncia sul motivo di gravame, onde il motivo che denunzia il vizio ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3 o n. 5 c.p.c., è inammissibile (e multis, Cass. 15 maggio 2013, n. 11801 ed ord. 24 marzo 2010, n. 7023).

Quanto alla violazione di norma processuale, premesso che la censura di alterazione delle circostanze di fatto allegate dall’attrice in primo grado è priva di pregio, posto che nella deduzione dell’insussistenza di uno stato di “insolvenza” va ragionevolmente ricompresa quella della mancanza di una situazione patrimoniale – finanziaria compromessa verso il sistema bancario, quale presupposto per l’operata segnalazione dei crediti in sofferenza alla centrale dei rischi, si osserva come la corte d’appello abbia ampiamente motivato con riguardo a tali presupposti, nel caso di specie: che ha reputato necessario individuare non nell’esistenza di un credito in sé, né nello stato di conclamata insolvenza, ma piuttosto nella ragionevole ed oggettiva opinione che il credito non possa essere soddisfatto in tempi congrui, sulla base di un sospetto qualificato dalla presenza degli elementi sintomatici dell’inadempimento.
In tal modo, la sentenza impugnata ha preso in considerazione il motivo di appello in discorso, nell’ambito della motivazione relativa, nel suo complesso, alla violazione degli obblighi gravanti sulla banca segnalante.
Ne deriva che il vizio denunziato non sussiste, posto che l’omessa pronuncia sopra un vizio del provvedimento impugnato va accertata con riferimento alla motivazione della sentenza nel suo complesso, senza privilegiare aspetti formali, sicché esso può ritenersi sussistente soltanto quando risulti non essere stato esaminato il punto controverso e non quando, al contrario, la decisione sul motivo di impugnazione risulti implicitamente da un’affermazione decisoria di segno contrario ed incompatibile.

6. – Il quarto motivo è in parte infondato ed in parte inammissibile.
La corte d’appello ha ritenuto illegittima la segnalazione alla centrale dei rischi, argomentando nel senso che il credito non era esigibile, vi era controversia tra le parti sull’importo dovuto alla banca quanto agli interessi e, quindi, non vi era alcun inadempimento in atto.
Ha aggiunto che da nessun elemento emergeva una situazione di pericolo, anche perché il credito di L. 142.000.000, sussistente alla data della segnalazione del 17 novembre 1997, era assistito dalle fideiussioni personali di P.F. e T.P. e da garanzia reale, mentre nel gennaio dello stesso anno era stato accordato un finanziamento ampiamente restituito sino ad allora, senza che nessun nuovo fatto negativo fosse emerso; ha precisato che la società aveva rapporti contrattuali significativi con grandi società di servizi, come provato in corso di causa.
La banca, quindi, allorché nel gennaio 1998 aveva revocato il fido, dopo che la cliente aveva comunque manifestato la volontà di risolvere il rapporto, e concesso un giorno di tempo per il rientro, secondo la corte territoriale ha tenuto una condotta contraria a buona fede, atta piuttosto a giustificare ex post l’avvenuta segnalazione.
La sentenza impugnata, in tal modo, si è conformata, da un lato, all’orientamento consolidato, secondo cui:
a) ai fini dell’obbligo di segnalazione che incombe sulle banche, il credito può essere considerato in sofferenza allorché sia vantato nei confronti di soggetti in istato di insolvenza, anche non accertato giudizialmente o che versino in situazioni sostanzialmente equiparabili, nozione che non si identifica con quella dell’insolvenza fallimentare, dovendosi far riferimento ad una valutazione negativa della situazione patrimoniale, apprezzabile come “grave difficoltà economica” (Cass., 10 ottobre 2013, n. 23093 e 12 ottobre 2007, n. 21428);
b) la segnalazione di una posizione in sofferenza non può scaturire dal mero ritardo nel pagamento del debito o dal volontario inadempimento, ma deve essere determinata dal riscontro di una situazione patrimoniale deficitaria, caratterizzata da una grave e non transitoria difficoltà economica equiparabile, anche se non coincidente, con la condizione d’insolvenza (Cass. 1 aprile 2009, n. 7958).

Dall’altro lato, il motivo sottopone alla Corte questioni di fatto e valutazione di prove già compiute, senza vizi logici o giuridici, dal giudice del merito ed unicamente allo stesso spettanti, onde l’argomentare della corte territoriale non è altrimenti sindacabile, dovendosi ricordare che, con la proposizione del ricorso per cassazione, il ricorrente non può rimettere in discussione, contrapponendone uno difforme, l’apprezzamento in fatto dei giudici del merito, tratto dall’analisi degli elementi di valutazione disponibili ed in sé coerente (e multis, cfr., in motivazione, Cass., ord. 21 giugno 2012, n. 10347; ord. 14 giugno 2012, n. 9764; 1 giugno 2012, n. 8877; 10 gennaio 2012, n. 86; ord., 6 aprile 2011, n. 7921; 12 agosto 2004, n. 15693; 7 agosto 2003, n. 11936).
Resta infine irrilevante, nell’economia del discorso motivazionale della sentenza impugnata, il riferimento al revirement di questa Corte in tema di capitalizzazione trimestrale degli interessi sui conti correnti bancari quale causa della controversia sugli interessi insorta tra le parti, palesandosi di qualche rilievo questa ultima circostanza, e non le sue cause.
7. – I motivi dal quinto al nono censurano la determinazione del danno e vanno considerati unitamente, in quanto intimamente connessi.
Essi sono infondati.
La corte d’appello ha ridotto notevolmente il danno liquidato in primo grado (lucro cessante di Euro 593.925,00 e danno emergente di Euro 290.920,00 secondo il tribunale): infatti, ha ritenuto provato che la società abbia proseguito la sua attività, con fatturato pressoché immutato e che, dopo tre anni, i soci avevano sì posto la società in liquidazione, ma costituendo la Gesis Italia 2000 s.r.l..
Ha tuttavia, considerato che comunque vi fu pregiudizio alla reputazione della società, posto che era dimostrato, a mezzo dei testimoni escussi, come le banche fossero venute a conoscenza della segnalazione, la Cariplo respinse la richiesta di aumento del fido e l’Istituto San Paolo lo revocò.
In tal modo, la società aveva subito la rinuncia, almeno temporale, a piani di espansione, avendo l’errata segnalazione inciso sulla libera concorrenza ed avvantaggiato altre aziende del settore, con conseguente perdita di competitività sul mercato per le occasioni commerciali sfumate, ed avendo il c.t.u. accertato le difficoltà in cui si trovò ad operare la società; inoltre, le energie psico-fisiche, facenti capo agli amministratori della società, erano state per un certo tempo dirottate verso l’individuazione di altre fonti di finanziamento e, quindi, sottratte al reperimento di nuovi clienti o all’acquisizione di altre commesse, con conseguenze reddituali e con danno non patrimoniale costituito dal patema e dallo “stress” di reperire in breve tempo fonti alternative di finanziamento.
Ha determinato, infine, in via equitativa il danno nella misura complessiva di Euro 100.000,00, ai valori attuali e comprensivo degli interessi per la tardiva disponibilità della somma.
In sostanza, la sentenza d’appello, come emerge dalla ricordata motivazione, ha ritenuto che – provata l’illiceità della segnalazione – fossero stati pure dimostrati il pregiudizio alla reputazione e la conseguente situazione di difficoltà aziendale (per la riduzione degli affidamenti e la necessità di reperirne altri) derivati dall’altrui condotta; laddove il riferimento allo “stress” appare riferito piuttosto alla disfunzione amministrativa e gestionale collegata alla ricerca di fonti di finanziamento alternative, e non ad uno stato psicologico come tale.
In tal modo, la corte territoriale si è attenuta ai principi costanti che riconoscono, in ipotesi di illegittima segnalazione del debitore alla centrale rischi, sia il danno non patrimoniale alla persona, anche giuridica, con riguardo ai valori della reputazione e dell’onore (essendo anche i soggetti collettivi titolari dei diritti della personalità a tutela costituzionale ex art. 2 Cost.), sia il danno al patrimonio, che può essere oggetto della prova presuntiva, quale conseguenza per l’imprenditore di un peggioramento della sua affidabilità commerciale, essenziale anche per l’ottenimento e la conservazione dei finanziamenti, con lesione del diritto ad operare sul mercato secondo le regole della libera concorrenza (cfr., per tali principi, le decisioni Cass. 30 agosto 2007, n. 18316; 4 giugno 2007, n. 12929; 18 aprile 2007, n. 9233; 28 giugno 2006, n. 14977; 3 aprile 2001, n. 4881; 23 marzo 1996, n. 2576; v. pure Cass. 18 settembre 2009, n. 20120, in tema di assicurazione contro i danni).

In particolare, anche nei confronti dell’ente collettivo è configurabile la risarcibilità del danno non patrimoniale, intesa come qualsiasi conseguenza pregiudizievole di un illecito che, non prestandosi ad una valutazione monetaria basata su criteri di mercato, non possa essere oggetto di risarcimento ma di riparazione: allorquando, cioè, il fatto lesivo incida su di una situazione giuridica dell’ente che sia equivalente ai diritti fondamentali della persona umana garantiti dalla costituzione (Cass. 1 ottobre 2013, n. 22396; 12 dicembre 2008, n. 29185; 4 giugno 2007, n. 12929).
Entrambi tali danni, inoltre, possono essere liquidati in via equitativa ai sensi dell’art. 1226 c.c. (cfr. Cass. 2 settembre 2008, n. 22061).
Pertanto, con riguardo sia alla derivazione del danno dalla condotta che alla concreta determinazione di esso, la corte d’appello ha fatto corretta applicazione delle norme nel motivo richiamate, senza alcun vizio sindacabile in questa sede.
Con riguardo, infine, alle censure di cui ai motivi settimo ed ottavo, l’attrice in primo grado aveva chiesto, come anche la banca afferma, la liquidazione di “tutti i danni” derivanti dalla dedotta segnalazione: ed è principio incontroverso che la domanda di risarcimento “di tutti i danni” è indicativa della volontà di conseguire l’integrale risarcimento di tutte le voci di danno legittimamente ricollegabili all’evento lesivo (Cass. 11 ottobre 2013, n. 23147; 17 dicembre 2009, n. 26505; 22 agosto 2007, n. 17873; 8 giugno 2007, n. 13391; 20 febbraio 2007, n. 3936; v. pure Cass. 16 giugno 2011, n. 13179).
5. – Le spese, in ragione della reciproca soccombenza, vengono interamente compensate.
P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi principale ed incidentale e li rigetta; compensa per intero fra le parti le spese di lite.

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