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Con sentenza n. 33179, depositata il 31 luglio 2013 la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso presentato dai Sigg. X e Z ai quali era stato contestato il reato di cui all’art. 3 della legge n. 654 del 1975 con la quale lo stato italiano ha ratificato la Convenzione di New York relativa ai diritti fondamentali dell’uomo in materia di discriminazione razziale e forme di razzismo e proselitismo.

L’attività dei due imputati è consistita nella promozione e direzione di un gruppo avente tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione razziale, etnica e religiosa. Tale attività è stata portata in esecuzione mediante la realizzazione di un blog all’interno del quale, nella esecuzione dei propositi criminosi, i due imputati svolgevano la propria attività mediante l’impiego di pseudonimi atti a mascherare le proprie identità nonché quelle degli altri compartecipi alla realizzazione di tali condotte.

Avverso la pronuncia emessa dal Tribunale di Roma i ricorrenti hanno proposto ricorso per Cassazione, contestando la configurabilità nei loro confronti dell’art. 3 della sopraindicata legge – che punisce le attività di promozione o direzione di tali organizzazioni – poiché, a loro dire, i ricorrenti, in qualità di organizzatori del blog, si sarebbero limitati ad ammettere gli articoli dei partecipanti senza che vi fosse a monte una vera e propria attività associativa. Inoltre, rilevavano che quand’anche vi fosse una attività associativa penalmente rilevante, la relativa questione avrebbe dovuto essere oggetto di giudizio da parte del giudice Statunitense, in considerazione del radicamento territoriale della medesima.

Su tali richieste di annullamento la Corte di Cassazione ha stabilito che la convenzione di New York, recepita dall’ordinamento italiano mediante la legge di esecuzione del 1975, deve essere interpretata in senso estensivo, poiché lo scopo di essa è quello di punire qualsivoglia forma di diffusione e di incitamento volto a creare discriminazione o proselitismo nei confronti di chiunque appartenga ad un gruppo razziale o etnico.

Il reato configurato da tale norma incriminatrice, secondo la Cassazione, si configura come un reato di pura condotta e a dolo generico, poiché il legislatore internazionale ha inteso punire la mera condotta – volontaria –  di chiunque effettua propaganda o istigazione a commettere atti di discriminazione indipendentemente dalla circostanza che tali condotte siano recepite o fatte proprie dai destinatari,

In ordine infine alla configurazione di fattispecie associativa contestata dai ricorrenti la Cassazione sottolinea che la comunità virtuale e, in generale la strutturazione di un sito internet o di un social network, integrano i requisiti previsti dal nostro ordinamento in relazione alla figura di associazione poiché, sebbene essa si discosti parzialmente dal modello associativo c.d. classico, presenta comunque i requisiti minimi, oramai fatti propri dalla giurisprudenza in ordine al concetto di associazione:  la sussistenza di una struttura stabile della propria organizzazione e dalla volontà dei propri membri di partecipare alla attività della associazione e di aderire alle finalità della stessa.

Tali considerazioni, sebbene diverse dal modello di associazione c.d. classico, sono rinvenibili anche nel caso di specie, poiché malgrado una comunità virtuale privilegi forme di comunicazione “informatiche” quali ad es. blog, chat ecc., possono, comunque, rinvenirsi tutti gli elementi costitutivi del sodalizio criminale quali, ad es., quelli della comunicazione tra gli aderenti al gruppo, la stabile organizzazione dell’associazione, (che esercita da tempo la propria attività), la diffusione di messaggi ai propri membri volti all’incitamento e alla diffusione di documenti e volti a creare proselitismo nei confronti del c.d. mondo esterno, raccolta di fondi tra i propri membri per promuovere iniziative, anche attive volte a sostenere l’allargamento e la attività stessa del blog.

Da ultimo la Cassazione ha respinto la censura presentata dai ricorrenti in ordine alla eccezione di incompetenza territoriale poiché, nei reati associativi per determinare la sussistenza della giurisdizione italiana occorre stabilire il luogo in cui si è realizzata la “operatività della struttura organizzativa”, essendo secondario il rilievo del luogo in cui si sono realizzati i singoli episodi criminosi. Ciò è configurato dall’art. 6 del c.p. laddove si stabilisce che la competenza per territorio si determina in relazione al luogo in cui si svolgono programmazione, ideazione e direzione delle attività criminose facenti capo al sodalizio, restando secondario il luogo in cui si è verificato il pactum sceleris.

Ciò è stato anche confermato più volte dalla giurisprudenza della stessa Cassazione la quale, proprio in materia di reati informatici, ha stabilito che “il giudice italiano è competente a conoscere della diffamazione compiuta mediante l’inserimento nella rete telematica Internet di frasi offensive e/o immagini denigratorie, anche nel caso in cui il sito web sia stato registrato all’estero, purché l’offesa sia stata percepita da fruitori che si trovino in Italia”.

Sulla base di tali argomentazioni la Corte ha pertanto respinto il ricorso presentato dai due imputati, confermando la decisione presa dal Tribunale di Roma.

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