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Con la sentenza n. 25843/13 la Suprema Corte si è occupata delle conseguenze della sindrome da “shopping compulsivo” sul giudizio di separazione.

A causa di tale motivo, il marito aveva chiesto l’addebito della separazione alla moglie, la quale, soccombente in grado di appello, decideva di proporre ricorso per cassazione.

Nel corso del giudizio di merito era emerso come la moglie si fosse resa protagonista di svariati episodi di furti di denaro nei confronti di familiari e terzi al fine di consentirle acquisti “particolarmente frequenti e fuori misura di beni mobili”.

I Giudici di legittimità hanno confermato la sentenza d’appello, innanzitutto nella parte in cui era stato accertato come la condotta del coniuge comportasse la violazione dei doveri matrimoniali.

D’altro canto, la moglie sosteneva come tale comportamento non le fosse addebitabile, proprio a causa della diagnosi da shopping compulsivo.

Come noto, infatti, sono due i requisiti che si richiedono per l’addebito della separazione: una condotta lesiva dei doveri coniugali e la sua imputabilità al soggetto agente.

Sul punto, tuttavia, la Suprema Corte non ha condiviso la tesi difensiva, ritenendo sufficiente quanto precisato dal CTU nel proprio elaborato.

Questi, infatti, aveva rilevato come la perizianda si fosse presentata “lucida ed orientata nei parametri spazio temporali nei confronti delle persone e delle cose, disponibile al colloquio, curata nell’aspetto e nell’abbigliamento, adeguata nel comportamento, ed ha risposto con attenzione e concentrazione, mentre la memoria rimaneva perfettamente integra. Continua il giudice a quo, precisando che la M. era perfettamente conscia della sua patologia e lo stesso CTU ha escluso un’incapacità di intendere e di volere, sussistendo soltanto un impulso compulsivo all’acquisto, sicuro disturbo della personalità che tuttavia, anche in base all’andamento pregresso, si poteva ritenere “ciclico””.

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE I CIVILE
Sentenza 23 settembre – 18 novembre 2013, n. 25843
(Presidente Carnevale – Relatore Dogliotti)
Svolgimento del processo
In un procedimento di separazione giudiziale tra M.P. e P.E. , il Tribunale di Pisa, con sentenza in data 17/11/2007, rigettava la richiesta di addebito reciprocamente proposta dalle parti, e condannava il P. a corrispondere alla moglie assegno di mantenimento per l’importo di Euro 2.000,00 mensili.
Proponeva appello il P., in punto addebito. Costituitosi il contraddittorio, la M. chiedeva rigettarsi l’appello e confermarsi la sentenza impugnata.
La Corte di Appello di Firenze, con sentenza in data 21 maggio 2008, in riforma, pronunciava la separazione personale dei coniugi, con addebito alla moglie, escludendo conseguentemente l’assegno di mantenimento a suo favore.
Ricorre per cassazione la M.
Resiste, con controricorso, il P.
La M. ha depositato memoria difensiva.
Motivi della decisione
Con il primo motivo, la ricorrente lamenta vizio di motivazione, sostenendo che la sentenza impugnata si fonderebbe su una lettura fortemente riduttiva della consulenza tecnica di ufficio, avente ad oggetto l’accertamento della condizione psichica di essa stessa, ed in particolare la sussistenza di una patologia attinente all’uso incontrollato del denaro per effettuare ossessivamente acquisto di beni mobili.
Con il secondo, falsa applicazione degli artt. 151, 156, 143, 1362 c.c., in ordine alla asserita violazione dei doveri matrimoniali e ai presupposti dell’addebito nella separazione, sostenendosi che la sicura assenza di imputabilità alla ricorrente stessa del predetto comportamento, doveva necessariamente escludere la pronuncia di addebito. Con il terzo, violazione dell’art. 91 c.p.c., quanto al regime delle spese processuali.
Vanno trattati congiuntamente, siccome strettamente collegati, i primi due motivi.
Si può consentire con l’affermazione della ricorrente, per cui la domanda di addebito implica l’imputabilità al coniuge del comportamento lesivo dei doveri coniugali (tra le altre, Cass. n. 14042 del 2008). È pure necessaria la sussistenza di un rapporto di causalità tra il comportamento lesivo e la sussistenza dell’elemento dell’intollerabilità della convivenza: tale profilo, non è, nella specie, oggetto di censura.
Quanto all’imputabilità in concreto, che la ricorrente nega, va precisato che questa in sostanza propone profili di fatto, insuscettibili di controllo in questa sede.
Come è noto, la valutazione della consulenza tecnica è autonomamente effettuata dal giudice di merito, e non può essere censurata da questa Corte, ove la sentenza presenti una motivazione adeguata e non illogica, e non incorra in errori di diritto (tra le altre, in generale, Cass. n. 5375 del 2013). D’altra parte, il giudice del merito ha il potere di liberamente indagare le fonti del proprio convincimento, valorizzando determinati elementi rispetto ad altri, e tale scelta, ancora una volta, non è in questa sede controllabile, ove possa individuarsi, e presenti un’interna coerenza, l’iter logico che conduce il giudice stesso alla pronuncia (Cass. n. 23873 del 2013).
Precisa la sentenza impugnata che il CTU ha verificato l’utilizzo da parte della M. di denaro sottratto ai familiari ed a terzi, per soddisfare la propria esigenza di effettuare acquisti sempre più frequenti e dispendiosi di beni mobili, quali vestiti, borse, gioielli, spendendo somme di volta in volta più ingenti.
Ammette bensì la Corte di Appello che, al test di Rorscharch la M. manifestava una nevrosi caratteriale repressa che ha indotto il consulente, sulla base del pregresso comportamento, a formulare una diagnosi di “shopping compulsivo”, caratterizzato da un impulso irrefrenabile ed immediato ad acquistare e da una tensione crescente, alleviata soltanto acquistando appunto beni mobili. Aggiunge la sentenza, richiamando le osservazioni del consulente, che la M. si è presentata davanti al CTU, lucida ed orientata nei parametri spazio temporali nei confronti delle persone e delle cose, disponibile al colloquio, curata nell’aspetto e nell’abbigliamento, adeguata nel comportamento, ed ha risposto con attenzione e concentrazione, mentre la memoria rimaneva perfettamente integra. Continua il giudice a quo, precisando che la M. era perfettamente conscia della sua patologia e lo stesso CTU ha escluso un’incapacità di intendere e di volere, sussistendo soltanto un impulso compulsivo all’acquisto, sicuro disturbo della personalità che tuttavia, anche in base all’andamento pregresso, si poteva ritenere “ciclico”.
In tale contesto, le osservazioni della ricorrente circa errori di fatto della sentenza, peraltro soltanto affermati (ad esempio, si contesta l’affermazione della sentenza stessa, per cui la M. non si sarebbe sottoposta a cure mediche), presentano una valenza del tutto marginale. È bensì vero che questa Corte (Cass. S.U. n. 9163 del 2005) ha affermato che nelle cause di imputabilità potrebbero rientrare pure nevrosi, psicopatie, disturbi della personalità, ma, nella specie, evidentemente, il disturbo mentale, pur presente nella M., secondo le risultanze della consulenza, come richiamate dal giudice a quo, non escludeva la sua imputabilità.
Affermata dunque la piena imputabilità della ricorrente, sicuramente i comportamenti riscontrati, pacificamenti sussistenti (furti di denaro ai familiari ed ai terzi, acquisti particolarmente frequenti e fuori misura di beni mobili), configurano violazione dei doveri matrimoniali ai sensi dell’art. 143 c.c..

Quanto al nesso di causalità con l’intollerabilità della convivenza, la M., in modo del tutto apodittico e generico sostiene che i predetti comportamenti si situavano lontano nel tempo, e non in prossimità della separazione: la ricorrente non fornisce specificazioni né riscontri probatori. Limitatamente a tale aspetto, il ricorso presenta profili di non autosufficienza, e dunque di inammissibilità.

Va pertanto confermata la pronuncia di addebito, con conseguente esclusione dell’assegno di mantenimento per la M.
Quanto al terzo motivo proposto, è appena il caso di precisare che, correttamente, la sentenza impugnata ha posto integralmente le spese del giudizio del primo e del secondo grado a carico dell’odierna ricorrente, in relazione alla sua soccombenza. Vanno rigettati, in quanto infondati, i motivi proposti, e, conclusivamente, il ricorso. Le spese seguono la soccombenza, anche per il presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali, determinate in Euro 3.000,00 per compensi ed Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge.

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