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Lo scorso 12 dicembre la Corte di Giustizia dell’Unione Europea si è pronunciata, con ordinanza, nuovamente sulla vexata quaestio della conformità al Diritto dell’Unione della norma di cui all’art. dell’articolo 36, quinto comma, del d. lgs. n. 165/2001.

La decisione trae origine da un procedimento civile incardinato da un precario del Comune di Aosta per l’accertamento dell’illegittimità del termine apposto al suo contratto di lavoro, la trasformazione del rapporto di lavoro a tempo determinato in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato e, in subordine, il risarcimento del danno subito a causa dell’utilizzo abusivo, da parte del suo ex datore di lavoro pubblico, di una successione di contratti di lavoro a tempo determinato.

Il Tribunale ordinario di Aosta, investito della controversia, preliminarmente constatava che un lavoratore, illegalmente assunto nel pubblico impiego in base a una successione di contratti di lavoro a tempo determinato, non solo non ha diritto alla trasformazione del rapporto di lavoro a tempo determinato in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, in applicazione dell’articolo 36, quinto comma, del d. lgs. n. 165/2001, ma, in forza di una giurisprudenza consolidata della Corte suprema di Cassazione italiana, può beneficiare del risarcimento del danno sofferto a causa di ciò solo qualora ne dimostri la concreta sussistenza. Una prova siffatta imporrebbe al ricorrente di essere in grado di dimostrare che egli abbia dovuto rinunciare a migliori opportunità di impiego.

Su queste premesse il Giudice decideva di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea la seguente questione pregiudiziale: «Se la direttiva 1999/70 (…) (articolo 1 nonché clausola 5 dell’allegato accordo quadro oltre ad ogni altra norma comunque connessa o collegata), debba essere intesa nel senso di consentire che il lavoratore assunto da un ente pubblico con contratto a tempo determinato in assenza dei presupposti dettati dalla normativa comunitaria predetta abbia diritto al risarcimento del danno soltanto se ne provi la concreta effettività, e cioè nei limiti in cui fornisca una positiva prova, anche indiziaria, ma comunque precisa, di aver dovuto rinunziare ad altre, migliori occasioni di lavoro».

Nell’ordinanza in commento, i giudici di Lussemburgo, in primo luogo richiamano i precedenti su analoghe questioni (sentenze Adeneler e a., punto 91; Marrosu e Sardino, punto 47; Angelidaki e a., punti 145 e 183, nonché citate ordinanze Vassilakis e a., punto 121; Koukou, punto 85, e Affatato, punto 38), dai quali discende che il diritto dell’Unione non stabilisce un obbligo generale degli Stati membri di prevedere la trasformazione in contratti a tempo indeterminato dei contratti di lavoro a tempo determinato, così come non stabilisce nemmeno le condizioni precise alle quali si può fare uso di questi ultimi, lasciando agli Stati membri un certo margine di discrezionalità in materia. Tuttavia, ammonisce la Corte, l’ordinamento giuridico interno dello Stato membro interessato deve prevedere misure effettive per evitare, ed eventualmente sanzionare, l’utilizzo abusivo di una successione di contratti di lavoro a tempo determinato.

Le suddette misure interne, in virtù dei principi di “equivalenza” ed “effettività” del diritto comunitario, non devono essere meno favorevoli di quelle che disciplinano situazioni analoghe di natura interna, né rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione.

A questo proposito, la Corte afferma che l’interpretazione della normativa interna, così come richiamata dal giudice del rinvio, sembra imporre che un lavoratore del settore pubblico, il quale desideri ottenere il risarcimento del danno sofferto nell’ipotesi di utilizzo abusivo di una successione di contratti di lavoro a tempo determinato, non goda di nessuna presunzione d’esistenza di un danno e, di conseguenza, debba dimostrare che il proseguimento del rapporto di lavoro, in base a una successione di contratti a tempo determinato, l’abbia indotto a dover rinunciare a migliori opportunità di impiego.

In considerazione di quanto sopra, con l’ordinanza 12 dicembre, la Corte di Giustizia ha enunciato i seguenti principi di diritto: «L’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999, che figura in allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, dev’essere interpretato nel senso che esso osta ai provvedimenti previsti da una normativa nazionale, quale quella oggetto del procedimento principale, la quale, nell’ipotesi di utilizzo abusivo, da parte di un datore di lavoro pubblico, di una successione di contratti di lavoro a tempo determinato, preveda soltanto il diritto, per il lavoratore interessato, di ottenere il risarcimento del danno che egli reputi di aver sofferto a causa di ciò, restando esclusa qualsiasi trasformazione del rapporto di lavoro a tempo determinato in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, quando il diritto a detto risarcimento è subordinato all’obbligo, gravante su detto lavoratore, di fornire la prova di aver dovuto rinunciare a migliori opportunità di impiego, se detto obbligo ha come effetto di rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio, da parte del citato lavoratore, dei diritti conferiti dall’ordinamento dell’Unione. Spetta al giudice del rinvio valutare in che misura le disposizioni di diritto nazionale volte a sanzionare il ricorso abusivo, da parte della pubblica amministrazione, a una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato siano conformi a questi principi.»

La rilevanza della pronuncia non è da sottovalutare.

Infatti, come evidenzia il giudice del rinvio, il diritto italiano non consente che il dipendente pubblico assunto in forza di un contratto a termine illegittimo possa chiedere la trasformazione del rapporto di lavoro in uno a tempo indeterminato, ma gli attribuisce il solo risarcimento del danno subito. Le voci risarcitorie ricollegabili alla formulazione dell’art. 36 d.lgs. n. 165/2001 debbono essere quelle previste dalla tutela risarcitoria ordinaria e pertanto quelle che il lavoratore riesca a dimostrare; in altre parole il lavoratore deve allegare e provare il pregiudizio subito ed il nesso causale tra l’illegittimità dell’assunzione a termine e quest’ultimo  (Cass. 13 gennaio 2012, n. 392 e Cass. 20 giugno 2012, n. 10127).

Si ritiene che tali rigorosi oneri probatori non solo si pongano in contrasto con il ‘principio di equivalenza del diritto dell’Unione Europea (i dipendenti pubblici, di fatto, sono sottoposti a un trattamento meno favorevole rispetto ai dipendenti privati per i quali la legge prevede non solo la conversione ma anche un indennizzo che è sottratto a qualsivoglia onus probandi), ma abbiano anche l’effetto pratico di «rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio, da parte del […] lavoratore, dei diritti conferiti dall’ordinamento dell’Unione».

Pertanto, alla stregua di questa ordinanza e, in virtù del “principio del primato” del diritto dell’Unione Europea, i giudici italiani che da oggi si trovino ad occuparsi di situazioni analoghe e che ritengano il sistema risarcitorio inadeguato dovranno disapplicare la norma di cui al quinto comma dell’art. 36 d.lgs. n. 165/2001 perché in contrasto con la normativa dell’Unione.

Antonio Lombardo

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