Il caso. C.F. conveniva in giudizio, davanti al Tribunale di Como, A.C., nella qualità di direttore del Corriere quotidiano della città e provincia di Como, M.F., L.M. e la Editoriale s.r.l., quest’ultima editrice del citato quotidiano, chiedendo il risarcimento dei danni conseguenti alla pubblicazione, in data 4 gennaio 1998, di un articolo nel quale erano state riportati notizie e dati personali riservati, ponendoli in collegamento con il ritrovamento, nella città di Como, di un arsenale di armi appartenente alle Brigate rosse.
Aggiungeva che il giorno dopo, 5 gennaio 1998, il medesimo giornale aveva pubblicato, accanto alla sua immagine, un’intervista da lui mai rilasciata e corrispondente al contenuto di una telefonata intercorsa con uno dei predetti convenuti.
Faceva presente, a sostegno della domanda, che era stato arrestato nel 1979 in quanto appartenente al gruppo terroristico denominato Prima linea, che era stato condannato e che aveva scontato la relativa pena; di essere quindi riuscito, con enormi sforzi, a costruirsi una nuova vita, sicché desiderava non essere più accostato, agli occhi della pubblica opinione, ad atti di terrorismo, trattandosi di una parte della sua esistenza ormai chiusa, rispetto alla quale voleva soltanto essere dimenticato. Riteneva, perciò, che le suddette pubblicazioni costituissero violazione della legge 8 febbraio 1948, n. 47, e della legge 31 dicembre 1996, n. 675.
Mentre in primo grado la domanda veniva rigettata, la Corte d’Appello, invece, la accoglieva, riconoscendo la sussistenza del cd. diritto all’oblio e condannando i convenuti, in solido tra loro, al risarcimento dei danni.
Secondo la Corte territoriale, il punto centrale della vicenda era costituito dalla mancanza del consenso dell’attore alla pubblicazione dell’”intervista”, che poi tale non era, dato che, nel corso del giudizio, si era appurato come il Sig. F. avesse contattato per telefono la direzione del quotidiano, invitandola ad astenersi dal procedere ad altre pubblicazioni che lo riguardassero.
La sentenza, inoltre, evidenziava la mancanza dell’interesse pubblico alla diffusione della predetta notizia, inteso quale interesse “attuale”.
Nel caso di specie, infatti, le vicende che riguardavano l’istante risalivano al 1979, per cui rievocare, a distanza di tanti anni, una serie di eventi così personali e dolorosi appariva certamente censurabile, “dal momento che essi fatti non avevano al momento della pubblicazione alcuna attinenza con il pubblico interesse né tanto meno presentavano aspetti di rilievo sociale”.
Da un punto di vista giuridico era osservato che l’art. 25 della legge n. 675 del 1996 disponeva già – con una previsione poi in sostanza recepita dall’art. 137 del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, oggi vigente – che il trattamento dei dati personali non richieda il consenso dell’interessato ove avvenga nell’esercizio della funzione di giornalista, il quale, come noto, può eccepire l’esistenza del diritto di cronaca.
D’altra parte, affinché il consenso dell’interessato non sia necessario, occorre che la diffusione della notizia risponda ad un criterio di “essenzialità dell’informazione riguardo a fatti di interesse pubblico”.
La Cassazione. La Suprema Corte ha in sostanza confermato la pronuncia dei Giudici del gravame, precisando come “nell’ipotesi di conflitto e necessario bilanciamento tra diritti di rango costituzionale come il diritto alla riservatezza garantito dall’art. 2 Cost. e il diritto di cronaca garantito dall’art. 21 Cost., pur in presenza dell’interesse pubblico alla conoscenza dei fatti divulgati, nonché di una forma civile di esposizione e valutazione di essi, non è consentita la compressione senza alcun limite del diritto alla riservatezza, atteso che non ogni lesione del diritto “soccombente” può ritenersi giustificata, essendo giustificata la lesione solo nei limiti in cui è strettamente funzionale al corretto esercizio del diritto vittorioso, ed essendo altresì necessaria una valutazione di proporzionalità tra la causa di giustificazione e la lesione del diritto antagonista, che va effettuata in relazione al concreto atteggiarsi dei diritti in contrapposizione (sentenza 9 giugno 1998, n. 5658)”.
Ripercorrendo l’iter argomentativo della Corte d’Appello, la Cassazione ha posto in evidenza che la violazione del diritto alla riservatezza si poteva dedurre da numerosi elementi:
– mancanza del consenso dell’interessato;
– mancanza di un interesse pubblico alla diffusione della notizia;
– arbitrario collegamento venutosi a creare tra il ritrovamento, nella zona di Como, di un arsenale di armi appartenenti alle disciolte Brigate rosse e la vicenda personale di C.F., condannato molti anni prima in quanto appartenente al gruppo terroristico denominato Prima linea;
– telefonata pubblicata col secondo articolo di giornale da cui emergeva in modo incontestabile che il F. desiderava proprio essere dimenticato, poiché la sua appartenenza ad un gruppo terroristico apparteneva ad un remoto passato che egli aveva cercato in tutti modi di rimuovere dalla sua vita.
La Suprema Corte ha quindi pronunciato il seguente principio di diritto: “In tema di diffamazione a mezzo stampa, il diritto del soggetto a pretendere che proprie passate vicende personali siano pubblicamente dimenticate (nella specie, c.d. diritto all’oblio in relazione ad un’antica militanza in bande terroristiche) trova limite nel diritto di cronaca solo quando sussista un interesse effettivo ed attuale alla loro diffusione, nel senso che quanto recentemente accaduto (nella specie, il ritrovamento di un arsenale di armi nella zona di residenza dell’ex terrorista) trovi diretto collegamento con quelle vicende stesse e ne rinnovi l’attualità. Diversamente, il pubblico ed improprio collegamento tra le due informazioni si risolve in un’illecita lesione del diritto alla riservatezza, mancando la concreta proporzionalità tra la causa di giustificazione (il diritto di cronaca) e la lesione del diritto antagonista”.
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE III CIVILE
Sentenza 9 maggio – 26 giugno 2013, n. 16111
(Presidente Spirito – Relatore Cirillo)
1. C.F. conveniva in giudizio, davanti al Tribunale di Como, A.C., nella qualità di direttore del Corriere quotidiano della città e provincia di Como, M.F., L.M. e la Editoriale s.r.l., quest’ultima editrice del citato quotidiano, chiedendo il risarcimento dei danni conseguenti alla pubblicazione, in data 4 gennaio 1998, di un articolo nel quale erano state riportati notizie e dati personali riservati ponendoli in collegamento con il ritrovamento, nella città di Como, di un arsenale di armi appartenente alle Brigate rosse. Aggiungeva che il giorno dopo, 5 gennaio 1998, il medesimo giornale aveva pubblicato, accanto alla sua immagine, un’intervista da lui mai rilasciata e corrispondente al contenuto di una telefonata intercorsa con uno dei predetti convenuti.
Faceva presente, a sostegno della domanda, che era stato arrestato nel 1979 in quanto appartenente al gruppo terroristico denominato Prima linea, che era stato condannato e che aveva scontato la relativa pena; di essere quindi riuscito, con enormi sforzi, a costruirsi una nuova vita, sicché desiderava non essere più accostato, agli occhi della pubblica opinione, ad atti di terrorismo, trattandosi di una parte della sua esistenza ormai chiusa, rispetto alla quale voleva soltanto essere dimenticato. Riteneva, perciò, che le suddette pubblicazioni costituissero violazione della legge 8 febbraio 1948, n. 47, e della legge 31 dicembre 1996, n. 675.
Costituitisi tutti i convenuti, il Tribunale di Como rigettava la domanda.
2. Avverso la sentenza di primo grado proponeva appello il F.
La Corte d’appello di Milano, con sentenza del l° dicembre 2006, in riforma della pronuncia di primo grado, dichiarava che le due pubblicazioni di cui sopra costituivano violazione delle menzionate leggi e condannava i convenuti, in solido fra loro, al pagamento della somma di euro 30.000, oltre interessi legali dalla pronuncia al saldo, nonché alla pubblicazione della sentenza a spese degli appellati; condannava altresì questi ultimi al pagamento delle spese dei due gradi di giudizio.
Osservava la Corte territoriale che il punto centrale della vicenda era costituito dall’esistenza o meno di un consenso del F. alla pubblicazione di quella che veniva definita “intervista”, con relativa foto riportante il nome ed il cognome. Era accaduto, in effetti, che, dopo la pubblicazione del primo articolo, il F. aveva contattato per telefono la direzione del quotidiano, invitandola ad astenersi dal procedere ad altre pubblicazioni che lo riguardavano, dalle deposizioni dei testimoni era emerso che l’appellante non intendeva rilasciare alcuna intervista, ma soltanto chiedere che fosse rispettata la sua vita privata, tanto più che si trattava di episodi risalenti al lontano 1979. Conseguentemente, mancava il consenso alla pubblicazione delle foto e della c.d. intervista.
Richiamando la normativa in tema di tutela della riservatezza, la Corte milanese evidenziava la mancaza, nella specie, dell’interesse pubblico alla diffusione della notizia; aggiungeva che per la sussistenza del diritto di cronaca deve esserci un interesse attuale alla conoscenza della notizia, elemento certamente mancante; che il F. aveva diritto all’oblio in riferimento ad una parte tanto drammatica della sua vita personale; e che, comunque, estrarre la foto del F. risalente al 1979 dall’archivio del giornale — fotografia che, accompagnata dal nome e dal cognome, ben consentiva l’individuazione dell’appellante — costituiva una violazione del diritto alla riservatezza, per di più in quanto accostata al ritrovamento di un arsenale di armi nel comasco, appartenente alle disciolte Brigate rosse. D’altra parte, secondo la sentenza, rievocare, a distanza di tanti anni, una serie di eventi così personali e dolorosi appariva certamente censurabile, «dal momento che essi fatti non avevano al momento della pubblicazione alcuna attinenza con il pubblico interesse né tanto meno presentavano aspetti di rilievo sociale».
In ordine alla determinazione del danno, la Corte d’appello dichiarava di dover procedere alla liquidazione con criteri equitativi, tenendo conto della «potenzialità lesiva delle notizie diffuse, della capacità diffusiva del veicolo dell’informazione nonché della possibilità che il F. sia stato riconosciuto ed individuato al di là della cerchia dei soggetti a lui più vicini».
3. Avverso la sentenza della Corte d’appello di Milano propongono ricorso per cassazione la Editoriale s.r.l., M.F., L.M., M.L.N. e R.C., le ultime due nella qualità di eredi del defunto A.C., con unico atto contenente quattro complessi motivi ed accompagnato da memoria.
Il F. non ha svolto attività difensiva in questa sede.
Motivi della decisione
1. Col primo motivo di ricorso si lamenta, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3) e n. 5), cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli. artt. 1, 12 e 25 della legge n. 675 del 1996, con errata identificazione della nozione di dato personale tutelabile, oltre a vizio di motivazione in ordine all’irrazionale esclusione della natura storica dei fatti narrati ed all’erronea qualificazione degli stessi come fatti meramente privati.
Rilevano i ricorrenti che gli articoli di giornale oggetto di causa si inseriscono in un’ampia ricostruzione dei c.d. anni di piombo, in relazione al ritrovamento di una notevole quantità di armi nel comasco.
Dopo aver richiamato il contenuto dei due articoli di giornale, i ricorrenti osservano che il consenso del F. non era necessario, in considerazione sia della natura dei dati sia dell’attività di chi li stava divulgando. Ed infatti, le informazioni relative ad una vicenda che è entrata a far parte della «memoria storica collettiva» possono essere rievocate senza limiti temporali, anche da parte dei giornali; nella specie, la partecipazione del F. alle note vicende del gruppo terroristico Prima linea costituiva un dato pacifico, noto all’opinione pubblica e, per ciò stesso, di interesse generale, rispetto al quale non è configurabile un diritto all’oblio. E comunque, se anche si trattasse di dati personali, la loro divulgazione sarebbe possibile in virtù della professione svolta dagli odierni ricorrenti, godendo l’attività di giornalista di un particolare status, riconosciuto dall’art. 25 della legge n. 675 del 1996.
Aggiungono poi i ricorrenti che lo stesso F., oggetto di vari procedimenti penali, aveva diffuso a suo tempo, con una lettera inviata ai giornali, una sintesi della propria vicenda umana; e gli articoli di giornale oggi in contestazione non fanno che riprodurre – in termini del tutto fedeli – quando già pubblicamente ammesso all’interessato.
2. Col secondo motivo di ricorso si lamenta, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 8, secondo comma, lettera e), della direttiva CEE 24 ottobre 1995, n. 94/46/C.
Si osserva, al riguardo, che tale direttiva ha costituito la fonte comunitaria che ha condotto all’approvazione della normativa nazionale in tema di tutela dei dati personali. In base al citato art. 8, il divieto di trattamento dei dati sensibili non sussiste quando gli stessi siano stati resi pubblici dalla persona interessata. Tale principio sarebbe stato violato dalla Corte d’appello, poiché la menzionata lettera inviata dal F. a tutti i giornali costituirebbe una ragione sufficiente a permettere la divulgazione dei dati medesimi.
3. Col terzo motivo di ricorso si lamenta, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5), cod. proc. civ., erronea valutazione della necessità di una intervista per poter divulgare i dati comunicati dal F. ai giornalisti, nonché erroneo giudizio sulla necessità di un espresso consenso oltre ad omessa considerazione dell’assenza di un danno nella divulgazione oggetto di causa.
Le argomentazioni a sostegno di questo motivo ripetono, in sostanza, quanto già detto in precedenza, aggiungendo che, in ogni modo, nessun pregiudizio poteva essere derivato al F. dalla pubblicazione degli articoli contestati, perché essi non facevano che confermare la sua completa riabilitazione sociale.
4. I primi tre motivi di ricorso – che pongono all’esame della Corte il delicato problema dei rapporti esistenti tra il diritto alla riservatezza ed il diritto di cronaca, entrambi tutelati dalla Costituzione, in relazione al c.d. diritto all’oblio – possono essere trattati congiuntamente e sono tutti privi di fondamento.
4.1. Rileva questa Corte che la vicenda in esame si colloca nel periodo di vigenza della legge n. 675 del 1996, oltre che in una data antecedente, sia pure di pochi mesi, l’approvazione del codice di deontologia dei giornalisti relativo al trattamento dei dati personali (avvenuta con provvedimento del Garante per la protezione dei dati personali in data 29 luglio 1998).
L’art. 25 della legge n. 675 del 1996 disponeva già – con una previsione poi in sostanza recepita dall’art. 137 del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, oggi vigente – che il trattamento dei dati personali non richiede il consenso dell’interessato ove avvenga nell’esercizio della funzione di giornalista. Ciò in quanto il diritto alla riservatezza incontra un limite nello speculare diritto di cronaca, col quale entra, potenzialmente, in conflitto. Tuttavia, affinché il consenso dell’interessato non sia necessario, occorre che la diffusione della notizia risponda – come oggi afferma, con felice sintesi, l’art. 137 del d.lgs. n. 196 del 2003 – ad un criterio di «essenzialità dell’informazione riguardo a fatti di interesse pubblico»; d’altra parte, anche il codice deontologico sopra richiamato prevede, all’art. 5, comma 1, che il giornalista «garantisce il diritto all’informazione su fatti di rilevante interesse pubblico, nel rispetto dell’essenzialità dell’informazione».
Come questa Corte ha già affermato, nell’ipotesi di conflitto e necessario bilanciamento tra diritti di rango costituzionale come il diritto alla riservatezza garantito dall’art. 2 Cost. e il diritto di cronaca garantito dall’art. 21 Cost., pur in presenza dell’interesse pubblico alla conoscenza dei fatti divulgati, nonché di una forma civile di esposizione e valutazione di essi, non è consentita la compressione senza alcun limite del diritto alla riservatezza, atteso che non ogni lesione del diritto “soccombente” può ritenersi giustificata, essendo giustificata la lesione solo nei limiti in cui è strettamente funzionale al corretto esercizio del diritto vittorioso, ed essendo altresì necessaria una valutazione di proporzionalità tra la causa di giustificazione e la lesione del diritto antagonista, che va effettuata in relazione al concreto atteggiarsi dei diritti in contrapposizione (sentenza 9 giugno 1998, n. 5658).
Allo stesso modo è stato anche affermato che, in tema di trattamento dei dati personali, la legge n. 675 del 1996 (applicabile anche in quel caso ratione ternporis) stabilisce, con riferimento alla attività giornalistica, il principio della libertà del trattamento, nell’osservanza del codice deontologico adottato con provvedimento del Garante del 29 luglio 1998, in ossequio al diritto all’informazione su fatti di interesse pubblico, ma anche al suo contemperamento con il canone della essenzialità dell’informazione. Il rispetto delle previsioni deontologiche è condizione essenziale per la liceità e la correttezza del trattamento dei dati personali e, se tali presupposti non sussistono, il consenso dell’interessato è imprescindibile e la diffusione del dato senza quel consenso è suscettibile di essere apprezzata come fatto produttivo di danno risarcibile (così la sentenza 24 aprile 2008, n. 10690). Più di recente, ed in coerenza con i menzionati precedenti, questa Corte ha stabilito che al giornalista è consentito divulgare dati sensibili senza il consenso del titolare né l’autorizzazione del Garante per la tutela dei dati personali, a condizione che la divulgazione sia “essenziale” ai sensi dell’art. 6 del codice deontologico dei giornalisti, e cioè indispensabile in considerazione dell’originalità del fatto o dei modi in cui è avvenuto; valutazione che costituisce accertamento in fatto rimesso al giudice di merito (sentenza 12 ottobre 2012, n. 17408).
Può dunque concludersi nel senso che i fattori decisivi dei quali il giudice di merito deve tenere conto nel delicato bilanciamento tra il diritto di cronaca e quello alla riservatezza sono costituiti dall’essenzialità dell’informazione e dall’interesse pubblico delle notizie divulgate.
4.2. Nel caso in esame, il ragionamento svolto dalla Corte milanese si snoda attraverso una serie di passaggi così riassumibili: 1) non c’era il consenso del F. alla pubblicazione della c.d. intervista, che poi tale non era, in quanto egli si era limitato a dolersi per quanto era stato pubblicato sul suo conto, invitando i giornalisti ad astenersi dal fornire ulteriori notizie relative alla sua persona; 2) la fotografia del F., sebbene assai risalente nel tempo, ne consentiva senza dubbio l’individuazione, tanto più che era accompagnata dal nome e cognome; 3) non sussisteva alcuna ragione o finalità di interesse pubblico alla divulgazione della c.d. intervista, tanto più che alla scoperta dell’arsenale di armi nel comasco non aveva fatto seguito alcuna imputazione a carico di chicchessia; d’altra parte, la rievocazione, a distanza di tanto tempo, di fatti privati riguardanti la vicenda personale del F., non poteva avere, al momento della pubblicazione, alcuna attinenza con il pubblico interesse, né presentava aspetti di rilievo sociale; 4) non c’era alcun nesso tra il ritrovamento delle armi e la vicenda passata del F., sicché nella specie il diritto all’oblio era da ritenere prevalente rispetto all’esercizio del diritto di cronaca.
La sentenza impugnata, quindi, ha posto in evidenza che la violazione del diritto alla riservatezza si poteva dedurre dalla mancanza del consenso dell’interessato, dalla mancanza di un interesse pubblico alla diffusione della notizia e dall’arbitrario collegamento venutosi a creare tra il ritrovamento, nella zona di Como, di un arsenale di armi appartenenti alle disciolte Brigate rosse e la vicenda personale di C.F., condannato molti anni prima in quanto appartenente al gruppo terroristico denominato Prima linea. Tanto più che dalla telefonata pubblicata col secondo articolo di giornale emergeva in modo incontestabile che il F. desiderava proprio essere dimenticato, poiché la sua appartenenza ad un gruppo terroristico apparteneva ad un remoto passato che egli aveva cercato in tutti modi di rimuovere dalla sua vita.
4.3. Inquadrata nei termini suddetti, la sentenza impugnata pur meritando una correzione della motivazione nella parte in cui sembra attribuire al consenso dell’interessato una valenza decisiva che, alla luce di quanto detto in precedenza, non sussiste – regge alle censure di cui ai motivi di ricorso in esame.
Rileva questa Corte che le vicende relative ai c.d. anni di piombo appartengono certamente alla memoria storica del nostro Paese, ma ciò non si traduce nell’automatica sussistenza di un interesse pubblico alla conoscenza di eventi che non hanno più, se non in via del tutto ipotetica e non dimostrata, alcun oggettivo collegamento con quei fatti e con quell’epoca. Nel caso in esame, attenendosi alla ricostruzione puntuale e priva di vizi logici compiuta dalla Corte di merito, il diritto alla riservatezza del F. – che assume, nella specie, i connotati del diritto ad essere dimenticato – deve prevalere sul diritto di cronaca, perché il fatto puro e semplice del ritrovamento di una cospicua quantità di armi nella zona di residenza del F. non poteva consentire al giornalista di creare un oggettivo (ed arbitrario) collegamento tra quell’evento, attuale, e la storia passata del F., ex terrorista ma pure ormai reinserito nel contesto sociale. La riemersione, per così dire, di un fatto molto lontano nel tempo – che rivestiva, all’epoca, un sicuro interesse pubblico – non si traduce, ipso facto, nella permanenza dell’interesse anche nel momento attuale; ed è del tutto evidente, proprio per la ricostruzione operata dalla Corte milanese, che il riferimento alla vicenda personale di C.F. non aveva nessun collegamento con l’evento del ritrovamento delle armi, se non al limitato fine di fare colore, ossia di presentare la notizia (odierna) in modo tale da destare l’attenzione dei lettori.
Né d’altra parte può dirsi, in relazione al secondo motivo di ricorso, che la vicenda sia scriminata per il fatto che il F. aveva a suo tempo – con una lettera inviata «a tutti i giornali» – reso pubblica la sua vicenda personale, dando conto del perché egli aveva compiuto la scelta del terrorismo. Anche tralasciando, infatti, il semplice rilievo per cui il ricorso non indica con precisione dove e quando tale “resoconto” sarebbe stato reso pubblico, resta il fatto che la diffusione di notizie personali in una determinata epoca ed in un determinato contesto non legittima, di per sé, che le medesime vengano utilizzate molti anni dopo, in una situazione del tutto diversa e priva di ogni collegamento col passato. In altre parole, il lungo tempo trascorso tra i due eventi fa sì che non possa ritenersi il fatto oggi divulgato come un fatto «reso noto direttamente dall’interessato» (per usare l’espressione dell’art. 137 del d.lgs. n. 196 del 2003).
Questa Corte – in relazione ad una fattispecie diversa ma sotto certi aspetti assimilabile a quella odierna – ha recentemente ribadito (sentenza 5 aprile 2012, n. 5525) che è, in ultima analisi, il principio di correttezza «a fondare in termini venerali l’esigenza del bilanciamento in concreto degli interessi e, conseguentemente, il diritto dell’interessato ad opporsi, al trattamento, quand’anche lecito, dei propri dati». Ne consegue che proprio il rispetto di tale basilare regola dei rapporti tra privati impone di riconoscere che il diritto dell’interessato ad essere dimenticato intanto piò cedere il passo rispetto al diritto di cronaca in quanto sussista un interesse effettivo ed attuale alla diffusione della notizia; diversamente argomentando, altrimenti, si finirebbe col riconoscere una sorta di automatica permanenza dell’interesse alla divulgazione, anche in un contesto storico completamente mutato.
Nel caso specifico, poi, la foto del F. (sia pure risalente nel tempo) era stata pubblicata insieme alle sue generalità, sicché la possibilità, di identificazione può dirsi certa; e il lungo tempo trascorso dall’epoca dei fatti di terrorismo per quali il F. era stato a suo tempo condannato fa sì che non possa predicarsi della sua persona il carattere della “notorietà”.
Da tanto consegue il rigetto dei primi tre motivi di ricorso, con enunciazione del seguente principio di diritto:
“In tema di diffamazione a mezzo stampa, il diritto del soggetto a pretendere che proprie passate vicende personali siano pubblicamente dimenticate (nella specie, c.d. diritto all’oblio in relazione ad un’antica militanza in bande terroristiche) trova limite nel diritto di cronaca solo quando sussista un interesse effettivo ed attuale alla loro diffusione, nel senso che quanto recentemente accaduto (nella specie, il ritrovamento di un arsenale di armi nella zona di residenza dell’ex terrorista) trovi diretto collegamento con quelle vicende stesse e ne rinnovi l’attualità. Diversamente, il pubblico ed improprio collegamento tra le due informazioni si risolve in un’illecita lesione del diritto alla riservatezza, mancando 1a concreta proporzionalità tra la causa di i giustificazione (il diritto di cronaca) e la lesione del diritto antagoniste”.
5.1. Col quarto motivo di ricorso si lamenta, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3) e n. 5), cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 1226 e 2056 cod. civ. in punto di liquidazione del danno, nonché, in via subordinata, vizio di motivazione sull’esistenza la determinazione del medesimo.
Osservano i ricorrenti che la liquidazione in euro 30.000 disposta dalla Corte milanese sarebbe avvenuta senza distinzione tra danno patrimoniale e danno non patrimoniale; la lesività della notizia rispetto all’onore e al decoro della persona, infatti, dovrebbe avvenire nella sua globalità, tenendo presente che gli articoli di giornale danno conto del mutamento di vita del F., il quale viene presentato come un soggetto ormai totalmente reinserito nella vita civile, mentre la sentenza non avrebbe compiuto un simile bilanciamento. D’altra parte la foto pubblicata, risalendo al 1979, consentiva l’individuazione del soggetto soltanto ad una cerchia molto imitata di persone, tanto più che il Corriere quotidiano della città e provincia di Como è un quotidiano a limitata diffusione territoriale.
5.2. Il motivo non è fondato.
La liquidazione del danno è stata compiuta dalla Corte d’appello con criteri equitativi, trattandosi di un caso nel quale non sussistono criteri certi e predeterminati di liquidazione. La valutazione equitativa del danno, in quanto inevitabilmente caratterizzata da un certo grado di approssimazione, è suscettibile di rilievi in sede di legittimità, sotto il profilo del vizio della motivazione, solo se difetti totalmente la giustificazione che quella statuizione sorregge, o macroscopicamente si discosti dai dati di comune esperienza, o sia radicalmente contraddittoria (sentenze 26 gennaio 2010, n. 1529, e 19 maggio 2010, n. 12318).
La Corte territoriale ha dato conto della molteplicità degli elementi considerati al fine di pervenire a tale risultato, né il ricorso contiene argomentazioni, idonee a scalfire la solidità della motivazione; quanto al profilo della diffusione territoriale della notizia, valgono rilievi compiuti nell’esaminare i precedenti motivi di ricorso.
6.1. Col quinto motivo di ricorso si lamenta, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3) e n. 4), cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 91 e 92, secondo comma, cod. proc, civ. e dei criteri di liquidazione delle spese legali in base alle vigenti tariffe.
Rilevano ricorrenti che la Corte d’appello, pur avendo accolto in misura minima la domanda di risarcimento danni, ha liquidato somme troppo elevate a titolo di spese di giudizio; la liquidazione, infatti, dovrebbe farsi in base al decisum e non in base al petitum, e il giudice di merito ha comunque il dovere di distinguere tra diritti ed onorari; quanto al rimborso forfetario nella misura del 12,5 per cento dei diritti ed onorari, il giudice può disporlo, ma solo a specifica richiesta di parte che, nella specie, non c’è stata. I ricorrenti, quindi, ripropongono la richiesta di liquidazione delle spese di primo grado e di secondo grado, come da note depositate davanti alla Corte d’appello di Milano.
6.2. Il motivo non è fondato.
Le contestazioni ivi contenute in ordine alla concreta liquidazione delle spese non superano la soglia di una evidente genericità. La Corte territoriale, infatti, ha distinto, in sede di liquidazione, i diritti dagli onorari; il ricorso, d’altra parte, si limita a lamentare il superamento delle tariffe, ma non indica con precisione le violazioni che il giudice di merito avrebbe compiuto, come questa Corte ha sempre richiesto in riferimento alle censure riguardanti il merito della liquidazione delle spese.
Quanto al rimborso forfetario, lo stesso può essere riconosciuto anche in assenza di specifica richiesta di parte, dovendosi l’istanza ritenere implicita nella domanda di condanna al pagamento degli onorari giudiziali che incombe sulla parte soccombente (sentenze 3 aprile 2007, n. 8238, e 22 febbraio 2010, n. 4209).
7. In conclusione, il ricorso è rigettato.
Non occorre provvedere sulle spese, atteso il mancato svolgimento di attività difensiva da parte dell’intimato C.F.
Per questi motivi
La Corte rigetta il ricorso. Nulla per le spese.
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