Come sappiamo Google dispone di due funzionalità che vengono utilizzate giornalmente da milioni di persone: stiamo parlando delle funzioni di “autocomplete” e “ricerche correlate”.
Quando cerchiamo su internet il nome di una persona, il motore di ricerca suggerisce alcuni termini correlati, i quali a volte sono offensivi o diffamatori.
Quando è stata chiamata in causa, Google si è difesa sostenendo come la ricerca avvenga tramite un software che si basa su un algoritmo matematico, così che il suo ruolo sarebbe meramente passivo.
Per questo motivo, viene invocata l’applicazione degli artt. 15 e 16 D.Lgs. n. 70/2003, disciplinanti l’attività di caching e di hosting.
La prima consiste nel trasmettere, su una rete di comunicazione, informazioni fornite da un destinatario del servizio, così che il prestatore non è responsabile della memorizzazione automatica, intermedia e temporanea di tali informazioni effettuata al solo scopo di rendere più efficace il successivo inoltro ad altri destinatari a loro richiesta; la seconda, invece, consiste nella memorizzazione di informazioni fornite da un destinatario del servizio.
Da ultimo, il Tribunale di Milano, in sede di reclamo cautelare, è stato investito della questione relativa alla presunta responsabilità di Google per le funzioni autocomplete e ricerche correlate.
In via preliminare, il collegio ha specificato che le ipotesi di esonero da responsabilità previste dal D. Lgs. 70/2003 devono essere considerate eccezionali e pertanto di stretta applicazione, essendo in contrasto con il generale sistema di attribuzione della responsabilità civile da fatto illecito.
Ciò posto, il Tribunale ha richiamato alcuni precedenti pronunce (cfr. ordinanza Tribunale Milano 9.9.11, ordinanza Tribunale Roma 13.12.11) nelle quali si è precisato che “l’evoluzione tecnica in materia di servizi internet ha determinato – in taluni casi – il superamento della figura dell’ISP, quale mero fornitore del supporto tecnico-informatico che consente l’accesso alla rete o alle informazioni, per condurre a una figura di “prestatore di servizi non completamente passiva e neutra rispetto alla gestione dei contenuti immessi dagli utenti (cd. hosting attivo)”, che interviene attivamente nell’organizzazione e selezione del materiale trasmesso dagli utenti e che pone il prestatore al di là della posizione di mero fornitore di uno spazio di memorizzazione di contenuti o di un software di comunicazione che ne consenta la visualizzazione a terzi”.
Nel caso di specie, i Giudici di Milano hanno ritenuto che Google non si limiti a fornire passivamente servizi di ospitalità di contenuti altrui, ma svolga ulteriori attività non meramente automatiche e necessarie per la sola trasmissione o raccolta dei contenuti – quali attività di indicizzazione, organizzazione, selezione dei contenuti stessi – perdendo così la posizione di passività e neutralità per assumerne una propria e attiva che, se pure non può essere assimilata a quella del content provider – non essendo produttori e veicolatori di contenuti editoriali propri -, li pone tuttavia in una posizione di ingerenza nell’organizzazione dei contenuti evidentemente non compatibile con la neutralità e passività previste dagli artt. 15 e 16 D.Lvo 70/03.
Il collegio ha quindi conseguentemente precisato: “Si tratta perciò di un software che solo astrattamente è “neutro” in quanto basato su di un sistema automatico di algoritmi matematici poiché esso perde tale neutralità ove produca – quale risultato dell’applicazione di tale automatismo basato sui criteri prescelti dal suo ideatore – un abbinamento improprio fra i termini di ricerca. Né viceversa il solo fatto che la modalità operativa (software) del sistema crea l’abbinamento in maniera automatica può rendere “neutro” – in virtù della mera automaticità con la quale perviene all’associazione di parole – un abbinamento che di per sé non lo è”(ordinanza Tribunale Milano 24.3.11)”.
Tra l’altro, i servizi e le funzionalità di cui sopra, secondo il Tribunale “lungi dal risultare essenziali per la fornitura dei servizi di trasporto e memorizzazione dei contenuti, costituiscono funzionalità aggiuntive che arricchiscono il motore di ricerca Google, rendendolo evidentemente più interessante e appetibile rispetto a motori meno “accessoriati””.
In conclusione, si è ritenuto che l’attività di un ISP cd. “attivo”, quale Google, vada esaminata alla luce degli ordinari criteri in materia di responsabilità aquiliana.
La pronuncia in commento si segnala anche per le considerazioni svolte sul merito della vicenda, distinguendo tra i due ricorrenti, una persona fisica e una fondazione.
Quanto alla prima il collegio ha ritenuto che l’abbinamento al nome della persona dei sostantivi “setta” e “plagio” non consenta l’immediata elaborazione di un concetto compiuto, non potendosi rinvenire in “setta” o “plagio” attributi riferibili ad una persona fisica.
“Tale associazione potrà al più indurre il lettore a collegare il soggetto con vicende di “plagio” o connesse a una “setta”, senza tuttavia fornire alcuna informazione in ordine alle stesse e alla possibilità di comprendere se la persona in questione sia stata – ove si considerino i termini solo in un’accezione decisamente negativa – soggetto attivo o al contrario vittima di una setta o di un episodio di plagio”.
“In mancanza di un chiaro significato compiuto, ritiene il collegio che le aggregazioni “(omissis) setta” e “(omissis) plagio” non siano immediatamente riferibili a sé e siano quindi prive di carattere offensivo e diffamante per il ricorrente. Il reclamo va dunque respinto con particolare riguardo alle aggregazioni delle parole “setta” e “plagio” al nome (omissis)”.
Discorso diverso, invece, per l’aggregazione della parola “setta” a “Fondazione (omissis) – suggerita dalla funzione “Autocomplete” – la quale rende immediatamente un concetto di senso compiuto, in quanto il termine “setta” è certamente idoneo di per sé a qualificare una persona giuridica privata come una fondazione.
In tal senso l’abbinamento a “Fondazione (omissis) della parola “setta” consente immediatamente di riferire il concetto di setta alla fondazione e quindi a veicolare l’informazione che Fondazione (omissis) sia una setta.
Tale termine, avente una chiara accezione negativa e dispregiativa, di fatto veicola un’informazione diffamatoria che lede la reputazione della Fondazione XXX, ente con finalità scientifiche e benefiche.
La ricorrente Fondazione, infatti, sosteneva di essere un ente morale e di ricerca impegnato nell’ambito dell’esplorazione scientifica, della promozione del benessere sociale e della difesa dei diritti dell’infanzia impegnato in diversi progetti internazionali e di finanziarsi attraverso donazioni, 5 per mille e attività benefiche basate sul sostegno di sponsor.
Pertanto, secondo i Giudici di Milano, era del tutto verosimile che l’abbinamento lesivo della reputazione della Fondazione avesse immediati riflessi sul sostegno, anche economico, che questa riceveva e che era evidentemente collegato alla buona immagine dell’ente.
Ciò posto, sussisteva una ragione d’urgenza che giustificava l’immediata rimozione dell’abbinamento operato dalla funzione “Autocomplete”.
In conclusione, si ritiene opportuno riportare un breve passaggio della sentenza, dove il Tribunale respinge alcune delle argomentazioni difensive di Google: “A questo proposito ritiene il collegio che – contrariamente da quanto sostenuto da Google – non vi siano elementi per affermare che in generale gli utenti del motore di ricerca abbiano un livello di conoscenza di Internet e dei suoi servizi tale da consentire loro di comprendere che i suggerimenti proposti da “Autocomplete” sono solo il prodotto di un sistema che raccoglie le ricerche più popolari e in definitiva da non lasciarsi condizionare nel giudizio dagli accostamenti di parole suggeriti dalle funzioni “Autocomplete”.
E’ invece evidente che l’impressione negativa ricevuta da chiunque legga l’abbinamento di parole suggerito può rimanere l’unica prodottasi sull’utente, che potrebbe arrestarsi alla lettura del solo suggerimento senza approfondire l’indagine attraverso l’esame dei documenti raccolti con la ricerca. Tale impressione risulta tanto più suggestiva per le modalità di abbinamento delle parole attraverso la funzione “Autocomplete” che – come si è detto – completa in via automatica la digitazione avviata dall’utente, anticipando e suggerendo termini che quest’ultimo non aveva neppure preso in considerazione”.
Tribunale di Milano
Sezione I Civile
Ordinanza 23 maggio 2013
(Presidente/Relatore Orietta Stefania Miccichè)
Fatto e diritto
In prime cure i ricorrenti hanno affermato:
– di aver accertato che, inserendo nell’interfaccia di ricerca di Google le seguenti parole: (omissis) Fondazione (omissis), le funzioni “Autocompletamento” e “Ricerche correlate” associavano parole che davano quale risultato frasi offensive e lesive dell’onore (omissis) e dell’immagine commerciale delle fondazioni dallo stesso presiedute, in particolare risultavano le seguenti associazioni: (omissis) setta”, Fondazione (omissis), (omissis) truffa”;
– che, in seguito alla richiesta di rimozione dei termini sopraddetti, Google si era dichiarata disposta a rimuovere i soli termini “truffa” e “truffatore”;
– che, con particolare riferimento alle funzioni “Autocomplete” e “Ricerche correlate” – pacificamente messe a punto da Google – quest’ultima andava considerata come un content provider, trattandosi di contenuto generato sotto la sua responsabilità e quindi attribuibile direttamente ad essa;
– che nessuna censura era mossa al contenuto delle ricerche veicolate da Google, essendo la richiesta limitata alla rimozione delle associazioni nelle funzionalità “Autocompletamento” e “Ricerche correlate”;
– che le espressioni derivanti dalle stringhe di ricerca erano gravemente dannose per i ricorrenti.
In prime cure Google inc. ha resistito alle deduzioni avversarie contestando di essere responsabile degli accostamenti visualizzati attraverso le funzioni “Autocomplete” e “Ricerche correlate” e di poter essere considerata contet provider. Ha al contrario sostenuto che la sua posizione è completamente neutrale – quale Internet Service Provider (ISP) – rispetto a tutti i servizi forniti agli utenti. Nello specifico ha osservato che:
– “Autocomplete” e “Ricerche correlate” sono funzionalità del motore di ricerca di Google che permettono agli utenti di effettuare qualunque ricerca nella rete Internet semplicemente digitando parole chiave all’interno di una apposita casella della home page di Google; il software di indicizzazione passa di pagina in pagina, recupera e indicizza in maniera automatica l’insieme di pagine Web accessibile al pubblico unitamente agli indirizzi informatici di ciascuna di esse; l’attività è operata attraverso algoritmi matematici;
– anche le funzionalità “Autocomplete” e “Ricerche correlate” sono il frutto di un’attività del tutto automatica riconducibile ad algoritmi matematici. In particolare “Autocomplete” riproduce statisticamente il risultato delle ricerche più popolari effettuate dagli utenti, mentre “Ricerche correlate” elenca i risultati delle pagine Web indicizzate rese accessibili dal motore di ricerca partendo dai termini digitati.
Ha evidenziato come non ci sia alcuna scelta di Google, ovvero alcun inserimento effettuato da Google nelle associazione di termini riportati tali funzioni, in quanto “Autocomplete” e “Ricerche correlate” sono funzionalità del servizio del Web search che operano in modo automatico e neutrale sulla base di parametri oggettivi.
Ha altresì rimarcato come la circostanza che l’algoritmo sotteso al funzionamento di “Autocomplete” e “Ricerche correlate” sia messo a punto da Google non possa aver rilievo ai fini di addebitare alla medesima la responsabilità dei risultati prodotti.
Ha inoltre, dedotto l’assenza di un obbligo in capo a Google di agire in assenza di un provvedimento dell’autorità giudiziaria.
Ha, comunque, escluso il carattere diffamatorio delle associazioni di termini indicati dai ricorrenti. In particolare ha evidenziato come:
– l’abbinamento ai nomi (omissis) Fondazione (omissis) dei termini “plagio” o “setta” non componga una frase di senso compiuto, né costituisca un’affermazione;
– i termini “setta” e “plagio” non abbiano un’obiettiva connotazione offensiva o insultante;
– qualunque utilizzatore di Internet sia ben consapevole della necessità di approfondimento alla luce della specifica ricerca effettuata.
Da ultimo ha contestato la sussistenza del requisito cautelare del periculum in mora. Il giudice di prime cure ha dichiarato la cessazione della materia del contendere avuto riguardo all’associazione con il termine “truffa”, medio tempore bloccato da Google. Ha respinto le ulteriori domande dei ricorrenti, escludendone la qualità di contet provider di Google e ritenendo i servizi di ricerca “Autocomplete” e “Ricerche correlate” funzionalità del motore di ricerca da ricondurre all’attività di caching – in quanto finalizzati a facilitare l’accesso alle informazioni fornite dal destinatario del servizio secondo la definizione dell’art. 15 D.Lvo 70/03 -, con esclusione della responsabilità del prestatore del servizio (Google) per il contenuto di tali informazioni. Ha ritenuto la neutralità di Google, comunque non obbligata alla rimozione se non a fronte di un ordine dell’autorità giudiziaria.
Ha, altresì, escluso che gli abbinamenti de quibus diano origine a frasi di senso compiuto o alla manifestazione di un pensiero e che abbiano valenza oggettivamente offensiva o insultante.
Ha ritenuto che – vista la diffusione di internet – l’utilizzatore sia consapevole della funzione di semplice aiuto alla ricerca.
Ha infine escluso la sussistenza del periculum in mora, in mancanza di indicazione del epoca a cui risalirebbero le visualizzazioni.
I reclamanti hanno impugnato il provvedimento per i seguenti motivi:
1) errata qualificazione giuridica della richiesta, da non ricondurre alle previsioni degli artt. da 14 a 17 D.Lvo 70/03, ma all’illecito aquiliano
2) sussistenza del carattere dispregiativo dei termini “setta” e “plagio”;
3) sussistenza del periculum in mora.
Hanno affermato che nel caso di specie occorre aver riguardo alla provenienza e alle modalità di formazione del contenuto della stringa che va attribuita a Google e hanno fatto derivare da ciò la responsabilità di quest’ultima per i contenuti della stessa, anche se formati in maniera automatica e secondo criteri stocastici e predittivi.
Hanno osservato che, ove pure si ritenessero applicabili alla fattispecie le previsioni di cui agli artt. 15 o 16 D.Lvo 70, in ogni caso sarebbe comunque consentito all’autorità giudiziaria di intervenire al fine di interrompere le violazioni.
Quanto al periculum in mora hanno affermato di ignorare da quanto tempo i suggerimenti fossero proposti da Google, ma di aver agito appena ne hanno avuto contezza.
Hanno dunque chiesto che, in riforma della l’ordinanza impugnata, fosse ordinato a Google la rimozione dalle interfacce di ricerca, con particolare riguardo alle funzioni “Autocomplete” e “Ricerche correlate”, dell’associazione tra i nomi (omissis) e Fondazione (omissis) con le parole “plagio” “setta”.
Google, costituendosi nel procedimento di reclamo ha eccepito l’inammissibilità dello stesso perché promosso tardivamente e perché privo di riferimenti al provvedimento impugnato. Nel merito ha sostenuto la correttezza delle determinazioni del primo giudice, ha ribadito che “Autocomplete” e “Ricerche correlate” sono funzionalità del servizio Google Web Search che operano in base a un parametro algoritmico oggettivo che analizza e rilascia le parole chiave più ricorrenti digitate dagli utenti – così che i termini visualizzati non riflettono una scelta di Google o un contenuto da questa immesso, né sono ad essa riferibili, ma rappresentano il mero risultato di un procedimento automatico – e ha contestato che possa essere individuata una responsabilità di Google per il solo fatto di aver sviluppato il servizio, attesa la neutralità e oggettività dei parametri utilizzati.
Ha osservato come debba essere applicata a Google – in quanto Internet Service Provider – la disciplina del D.L.vo 70/03 (in particolare la previsione di cui all’art. 15, visto che “Autocomplete” e “Ricerche correlate” sono funzionalità di caching) e le esenzioni di responsabilità previste.
Ha contestato la sussistenza di un danno riferibile agli specifici abbinamenti, in quanto l’utente medio è in grado di distinguere tra le visualizzazioni rinvenibili in “Autocomplete” e “Ricerche correlate” dai risultati delle ricerche. Ha contestato la portata diffamatoria degli accostamenti.
Ha negato la sussistenza del periculum in mora in mancanza di riscontro alcuno degli assenti gravi e irreparabili danni. Ha dunque chiesto il rigetto del reclamo.
1. Va, innanzi tutto respinta l’eccezione di inammissibilità del reclamo.
A norma dell’art. 669 terdecies c.p.c. il reclamo deve essere proposto nel termine perentorio di 15 giorni dalla comunicazione del provvedimento, o dalla notificazione se anteriore. Ex art. 45 disp. att. c.p.c. la comunicazione deve contenere l’indicazione dell’ufficio giudiziario, della sezione, del giudice, del numero di ruolo generale sotto il quale l’affare è iscritto, del ruolo dell’istruttore, il nome delle parti e il testo integrale del provvedimento comunicato.
Come risulta chiaramente dalle produzioni di entrambe le parti la comunicazione ricevuta dal difensore dei ricorrenti il 27.3.13 risultava del tutto priva del testo del provvedimento – trattandosi di biglietto di cancelleria con il quale è stata comunicata la trasmissione degli atti all’Agenzia delle Entrate – e non può dunque ritenersi comunicazione del provvedimento ai sensi dell’art. 45 disp. att. c.p.c., utile ai fini della decorrenza dei termini per il reclamo. Solo con la comunicazione ricevuta dal difensore dei ricorrenti in data 5.4.13 (doc. 4 Google) è stata data notizia del deposito del “provvedimento fuori udienza del giudice”, il suo oggetto e – parzialmente – la decisione del giudice.
I termini di cui all’art. 669 terdecies c.p.c. hanno dunque iniziato a decorrere dal 5.4.13.
Ne consegue la tempestività del reclamo depositato il 18.4.13.
2. Ancora preliminarmente, va escluso l’esame della presente vertenza cautelare alla luce della differente disciplina di cui al D.Lvo 196/03 in materia di trattamento dei dati personali – argomento introdotto dai ricorrenti solo in sede di discussione orale del reclamo – trattandosi di questione del tutto nuova non dedotta neppure nell’atto reclamo.
3. Occorre esaminare se, con particolare riguardo alle funzioni di ricerca “Autocomplete” e “Ricerche correlate” che qui interessano, Google inc. vada considerata content provider – ovvero soggetto che produce e immette in rete i propri contenuti – come sostenuto dai ricorrenti, ovvero Internet Service Provider e altresì se ad essa vada applicata la disciplina del D.Lvo 70/03 in materia commercio elettronico e le relative previsioni in materia di responsabilità (artt. da 14 a 17).
Il D.Lvo 70/03 – attuazione della Direttiva 2000/31/CE – in materia commercio elettronico, regola l’attività del prestatore di servizi della società dell’informazione (Internet Service Provider) distinguendo le prestazioni offerte in tre tipologie consistenti: nel trasmettere, su una rete di comunicazione, informazioni fornite da un destinatario del servizio, o nel fornire un accesso alla rete di comunicatone – art. 14 -(mere conduit); nel trasmettere, su una rete di comunicazione, informazioni fornite da un destinatario del servizio, il prestatore non è responsabile della memorizzazione automatica, intermedia e temporanea di tali informazioni effettuata al solo scopo di rendere più efficace il successivo inoltro ad altri destinatari a loro richiesta – art. 15 – (caching); nella memorizzazione di informazioni fornite da un destinatario del servizio – art. 16 – (hosting).
Gli artt. 14, 15, e 16 prevedono, in presenza di specifiche condizioni, l’esonero di responsabilità dei prestatori dei tre differenti servizi in relazione alle informazioni trasmesse o memorizzate. Ancora a norma dell’art. 17 è esplicitamente escluso un obbligo generale di sorveglianza sulle informazioni che il prestatore dei servizi di cui agli artt. 14, 15 e 16 trasmette o memorizza.
Non pare superfluo rammentare che il 42° considerando della Direttiva CE 2000/31, a proposito delle deroghe alla responsabilità fissate con la direttiva, precisa che tali deroghe “riguardano esclusivamente il caso in cui l’attività di prestatore di servizi della società dell’informazione si limiti al processo tecnico di attivare e fornire accesso ad una rete di comunicazione sulla quale sono trasmesse o temporaneamente memorizzate le informazioni messe a disposizione da terzi al solo scopo di rendere più efficiente la trasmissione. Siffatta attività è di ordine meramente tecnico, automatico e passivo, il che implica che il prestatore di servizi della società dell’informazione non conosce né controlla le informazioni trasmesse o memorizzate.
Ancora con rifermento all’ambito di operatività dell’esonero di responsabilità va ricordata la pronuncia della Corte di Giustizia UE (sent. 12 luglio 2011 L’Oreal contro eBay) che ha sottolineato come la previsione di esonero di responsabilità vada applicata esclusivamente al soggetto che si limiti a una fornitura neutra del servizio mediante e a un trattamento puramente tecnico e automatico dei dati forniti dai suoi clienti e che ove il gestore abbia prestato “un’assistenza consistente nell’ottimizzare la presentazione delle offerte in vendita di cui trattasi e nel promuovere tali offerte, si deve considerare che egli non abbia occupato una posizione neutra tra cliente venditore considerato e i potenziali acquirenti, ma che ha svolto un ruolo attivo atto a conferirgli una conoscenza o un controllo dei dati relativi alle offerte. In tal caso non può avvalersi, riguardo a tali dati, della deroga in materia di responsabilità di cui all’art. 14 della direttiva 2000/31”.
In tale panorama, già chiaramente indicativo di un’attenzione al contenimento delle ipotesi di esonero di responsabilità, non può essere trascurato il carattere evidentemente eccezionale della scelta legislativa di escludere la responsabilità del prestatore di servizi, che si pone in una logica diametralmente opposta al generale sistema di attribuzione della responsabilità civile da fatto illecito. L’eccezionalità della previsione deve necessariamente indurre a considerare le disposizioni di cui agli artt. 14, 15, 16 di stretta applicazione, senza la possibilità di interpretazioni estensive delle medesime.
L’esclusione della responsabilità dell’ISP va dunque limitato ai casi in cui il prestatore abbia agito come mero intermediario di servizi di trasporto o memorizzazione delle informazioni, totalmente estraneo al contenuto della trasmissione e quindi completamente passivo rispetto ai contenuti immessi da terzi in Internet.
Come la giurisprudenza di merito ha già avuto modo di osservare (ordinanza Tribunale Milano 9.9.11, ordinanza Tribunale Roma 13.12.11) l’evoluzione tecnica in materia di servizi internet ha determinato – in taluni casi – il superamento della figura dell’ISP, quale mero fornitore del supporto tecnico-informatico che consente l’accesso alla rete o alle informazioni, per condurre a una figura di “prestatore di servizi non completamente passiva e neutra rispetto alla gestione dei contenuti immessi dagli utenti (cd. hosting attivo)”, che interviene attivamente nell’organizzazione e selezione del materiale trasmesso dagli utenti e che pone il prestatore al di là della posizione di mero fornitore di uno spazio di memorizzazione di contenuti o di un software di comunicazione che ne consenta la visualizzazione a terzi.
Così gli aggregatori di contenuti e i motori di ricerca che non si limitino a fornire passivamente servizi di ospitalità di contenuti altrui, ma svolgano ulteriori attività non meramente automatiche e necessarie per la sola trasmissione o raccolta dei contenuti – quali attività di indicizzazione, organizzazione, selezione dei contenuti stessi – perdono la posizione di passività e neutralità per assumerne una propria e attiva che, se pure non può essere assimilata a quella del content provider – non essendo produttori e veicolatori di contenuti editoriali propri -, li pone tuttavia in una posizione di ingerenza nell’organizzazione dei contenuti evidentemente non compatibile con la neutralità e passività previste dagli artt. 15 e 16 D.Lvo 70/03.
In tali casi non trova applicazione la disciplina in materia di esonero di responsabilità e l’attività del ISP cd. “attivo” va esaminata alla luce degli ordinari criteri in materia di responsabilità aquiliana.
In definitiva l’esclusione di responsabilità va dunque circoscritta alle ipotesi in cui il prestatore abbia svolto mera attività di intermediario, senza aver contribuito per fatto proprio alla formazione del contenuto dell’informazione.
Google in quanto soggetto che offre servizi di ricerca via internet è certamente un Internet service provider. Secondo la condivisa descrizione data dal Tribunale di Milano “I motori di ricerca sono data-base che indicizzano i testi sulla rete e che offrono agli utenti un accesso per la consultazione: sono dunque sostanzialmente una banca dati + un software. Per tale ragione i motori di ricerca vengono qualificati come ISP ed operano come intermediari dell’informazione tipici dell’internet, utilizzando vari strumenti per intermediare appunto le informazioni, tra ad a) una piattaforma tecnologica (il che comporta pagine di web, data-base e software necessari al funzionamento della piattafomia); b) data-bases e c softwares (in particolare gli spiders). Il complesso di tale sistema consente di pervenire all’esito della ricerca che è una o più pagine web con una serie di informazioni organizzate dal meccanismo predisposto dal motore di ricerca (…) Dunque i motori di ricerca sono vere e proprie raccolte di dati, informazioni, opere, consultabili attraverso la digitazione di “parole chiave” (ordinanza Tribunale Milano 24.3.11).
In tale ambito Google si pone come hosting provider, in quanto offre un servizio consistente nella memorizzazione di informazioni fornite da terzi.
L’oggetto della presente vertenza, tuttavia, non riguarda il servizio di memorizzazione delle informazioni immesse in rete da terzi, quanto, invece, l’associazione di parole ai nominativi dei ricorrenti realizzata dalle funzioni “Autocomplete” e “Ricerche correlate” messe a punto da Google. Tale servizio esula da quello di semplice memorizzazione passiva delle informazioni e realizza associazioni di parole grazie a sistemi – algoritmi matematici – pacificamente ideati, elaborati e adottati da Google.
E’ stato diffusamente descritto come le due funzioni “Autocomplete” e “Ricerche correlate” agiscano nel sistema di ricerca Google.
In particolare “Autocomplete” opera partendo dalla casella all’interno della quale l’utilizzatore digita le parole chiave necessarie per avviare ricerca e, ancor prima che l’utente abbia terminato di comporre la propria ricerca, fornisce in una sottostante tendina una lista di parole chiave che completano i termini inseriti dall’utente. La tendina offre nella sostanza suggerimenti di ricerche che evidentemente facilitano l’impostazione della ricerca. Il completamento viene eseguito in maniera automatica dal sistema che, pescando nel mare dei contenuti immessi in rete da terzi, raccoglie e aggrega informazioni, applicando un algoritmo matematico che visualizza parole già immesse più volte da altri utenti nella stringa di ricerca di Google. Selezionata la ricerca dall’utente, la pagina web visualizza gli URL (Uniform Resource Locator, sequenza di caratteri che identifica univocamente l’indirizzo di una risorsa in Internet – documento, immagine, video – rendendola accessibile) e offre alcune righe del testo associato, accessibile per l’intero cliccando sull’URL prescelto. I suggerimenti di ricerca che appaiono nella tendina sono il risultato delle ricerche più frequenti effettuate negli ultimi tempi dagli utenti.
La funzione “Ricerche correlate” offre – in fondo alla pagina che si apre dopo che l’utente ha avviato la ricerca con le parole chiave – un elenco di ricerche riferite ai risultati delle pagine Web indicizzate che sono accessibili attraverso il motore di ricerca partendo dagli stessi termini digitati nella stringa di ricerca.
Le funzioni appena descritte, lungi dal risultare essenziali per la fornitura dei servizi di trasporto e memorizzazione dei contenuti, costituiscono funzionalità aggiuntive che arricchiscono il motore di ricerca Google, rendendolo evidentemente più interessante e appetibile rispetto a motori meno “accessoriati”.
E’ la stessa Google a mettere in risalto le utilità della funzione di completamento automatico nel paragrafo “ulteriori informazioni” (ricavabile dalla tendina di “Autocomplete”), che testualmente precisa: “Durante la digitazione all’interno della casella di ricerca di Google, il completamento automatico ti aiuta a trovare rapidamente le informazioni desiderate visualizzando ricerche che potrebbero essere simili a quella che stai digitando”. “Per riposare le dita. La possibilità di scegliere tra le ricerche previste ti consente di trovare le informazioni più rapidamente e senza dover digitare interamente la query. Per scoprire gli errori. Forse cercavi: Melbourne Australia? Inizia a cercare [melborn] e l’algoritmo di Google ti proporrà la corretta ortografia per ciò che probabilmente stai cercando di trovare”.
Non vi è dubbio che tali “utilità” siano il frutto del meccanismo di ricerca ideato da Google che, pur veicolando dati presenti sulle pagine web e immessi da terzi, propone all’utente ricerche aggregando parole secondo una “logica”, certamente automatica, ma comunque ideata in origine da Google, per finalità differenti e non essenziali al funzionamento del motore di ricerca, riconducibili alle scelte tecniche e imprenditoriali della stessa Google.
Ne consegue che con particolare riguardo alle funzioni “Autocomplete” e “Ricerche correlate” Google non può ritenersi un ISP cd. passivo, ma al contrario l’azienda svolge un ruolo attivo nell’aggregazione dei dati, totalmente riferibile all’iniziativa di Google, sia pure secondo un criterio automatico e predeterminato che l’azienda si è data a monte dell’erogazione del servizio.
In proposito il collegio condivide le considerazioni già svolte in altra vertenza dal Tribunale di Milano che ha sottolineato che “è proprio questo il meccanismo di operatività del software messo a punto da Google che determina il risultato rappresentato dagli abbinamenti che costituiscono previsioni o percorsi possibili di ricerca e che appaiono all’utente che inizia la ricerca digitando le parole chiare. Dunque e la scelta a monte e l’utilizzo di tale sistema e dei suoi particolari meccanismi di operatività a determinare – a valle – l’addebitabilità a Google dei risultati che il meccanismo così ideato produce; con la sua conseguente responsabilità extracontrattuale (ex art. 2043 c.c.) per i risultati eventualmente lesivi determinati dal meccanismo di funzionamento di questo particolare sistema di ricerca”. “Si tratta perciò di un software che solo astrattamente è “neutro” in quanto basato su di un sistema automatico di algoritmi matematici poiché esso perde tale neutralità ove produca – quale risultato dell’applicazione di tale automatismo basato sui criteri prescelti dal suo ideatore – un abbinamento improprio fra i termini di ricerca. Né viceversa il solo fatto che la modalità operativa (software) del sistema crea l’abbinamento in maniera automatica può rendere “neutro” – in virtù della mera automaticità con la quale perviene all’associazione di parole – un abbinamento che di per sé non lo è”(ordinanza Tribunale Milano 24.3.11).
Così l’automatismo del software che produce l’aggregazione di parole non è sinonimo di neutralità dell’ISP a cui vanno interamente attribuite – anche sotto il profilo del rischio di impresa – sia le iniziali scelte tecniche e imprenditoriali dell’attivazione delle funzioni de quibus – come si è detto non necessarie alla semplice memorizzazione dei contenuti – sia le concrete aggregazioni di parole nella tendina “Autocomplete” o nell’elenco “Ricerche correlate”.
E’, infatti, Google che, sia pure attraverso un meccanismo automatico affidato ad un algoritmo, recupera dal “mare di internet” i suggerimenti di ricerca e le correlazioni alla ricerca eseguita dall’utente secondo un criterio prestabilito dalla stessa.
Così operando Google opera direttamente e attivamente nell’aggregazione delle parole e nella formazione delle stringhe di ricerca, finendo per agire come ISP attivo, evidentemente privo di quella neutralità che costituisce carattere essenziale per ricondurre il servizio dell’ISP nella disciplina degli artt. 15 e 16 D.Lvo 70/03. Con particolare riguardo alle funzioni “Autocomplete” e “Ricerche correlate”, Google non opera dunque come mero intermediario – ISP passivo -, ma come ISP attivo, con la conseguenza che la responsabilità della reclamata in relazione a tali funzioni va esaminata alla luce dei principi ordinari in materia di illecito aquiliano, non essendo applicabili le esenzioni di cui agli artt. 15 e 16 D.Lvo 70/03.
I ricorrenti hanno dedotto la responsabilità di Google, non in considerazione di un generale obbligo di sorveglianza, ma in conseguenza dell’inerzia mantenuta dalla società dopo la segnalazione delle aggregazioni ritenute pregiudizievoli.
I ricorrenti hanno contattato Google inc. nel giugno 2012 lamentando la presenza di aggregazioni di parole ritenute offensive e realizzate dalle funzioni “Autocomplete” e “Ricerche correlate”.
Google ha contestato che le associazioni di parole in questione compongano frasi di senso compiuto o che manifestino un pensiero di Google.
Ritiene il collegio del tutto inconferente tale ultima considerazione, non essendo evidentemente in rilievo il pensiero di Google, quanto l’informazione veicolata attraverso le ricerche suggerite e correlate.
Come si è accennato i suggerimenti consistono nell’aggregazione di una o più parole che la funzione del software aggiunge automaticamente alla parola o alle lettere digitate dall’utente. Sebbene le parole così aggregate non costituiscano frasi logicamente e grammaticalmente complete, non vi è dubbio che talvolta l’associazione di talune parole – per la naturale concordanza tra loro – sia immediatamente evocativa di un concetto finito e di un’informazione riferibile al soggetto il cui nominativo è stato digitato.
Nel caso di specie le associazioni che si sviluppano in seguito alla digitazione dei nomi: (omissis) e (omissis) sono (omissis) setta, Fondazione (omissis), (omissis) plagio.
Ritiene il collegio che l’abbinamento al nome della persona fisica (nella specie (omissis) dei sostantivi “setta” e “plagio” non consenta l’immediata elaborazione un concetto compiuto, non potendosi rinvenire in “setta” o “plagio” attributi riferibili ad una persona fisica. Tale associazione potrà al più indurre il lettore a collegare il soggetto con vicende di “plagio” o connesse a una “setta”, senza tuttavia fornire alcuna informazione in ordine alle stesse e alla possibilità di comprendere se la persona in questione sia stata – ove si considerino i termini solo in un’accezione decisamente negativa – soggetto attivo o al contrario vittima di una setta o di un episodio di plagio.
In mancanza di un chiaro significato compiuto, ritiene il collegio che le aggregazioni “(omissis) setta” e “(omissis) plagio” non siano immediatamente riferibili a sé e siano quindi prive di carattere offensivo e diffamante per il ricorrente. Il reclamo va dunque respinto con particolare riguardo alle aggregazioni delle parole “setta” e “plagio” al nome (omissis).
Diversamente l’aggregazione della parola “setta” a “Fondazione (omissis) – suggerita dalla funzione “Autocomplete” – rende immediatamente in concetto di senso compiuto, in quanto il termine “setta” è certamente idoneo di per sé a qualificare una persona giuridica privata come una fondazione. In tal senso l’abbinamento a “Fondazione (omissis) della parola “setta” consente immediatamente di riferire il concetto di setta alla fondazione e quindi a veicolare l’informazione che Fondazione (omissis) sia una setta.
Il termine “setta” indica un raggruppamento di persone sorto attorno a personalità carismatiche o comunque unite da un credo – ideologico, religioso o politico – professato in modo radicale e intransigente e talvolta in contrapposizione esplicita alla comunità e all’ideologia dominante. Nel senso più dispregiativo il termine sta per gruppo fazioso e intollerante.
Tale accezione dispregiativa è di fatto quella attualmente più presente nell’opinione pubblica, che associa al concetto di setta un gruppo fazioso, intollerante e potenzialmente pericoloso, proprio in ragione del fanatismo che caratterizza i suoi adepti. L’associazione di un simile concetto a una fondazione ne dà un’immediata connotazione negativa, che nel caso di un ente con finalità scientifiche e benefiche – come quelle della Fondazione (omissis) – risulta tanto più grave perché si pone in aperta contraddizione con gli obiettivi filantropici dichiarati.
Ritiene il collegio, sia pure nei limiti della sommarietà che caratterizza la cognizione cautelare, che l’aggregazione della parola “setta” a “Fondazione (omissis) abbia un carattere gravemente lesivo della reputazione della ricorrente e che tale abbinamento attraverso la funzione “Autocomplete” sia idonea a veicolare un’informazione dal contenuto diffamatorio.
A questo proposito ritiene il collegio che – contrariamente da quanto sostenuto da Google – non vi siano elementi per affermare che in generale gli utenti del motore di ricerca abbiano un livello di conoscenza di Internet e dei suoi servizi tale da consentire loro di comprendere che i suggerimenti proposti da “Autocomplete” sono solo il prodotto di un sistema che raccoglie le ricerche più popolari e in definitiva da non lasciarsi condizionare nel giudizio dagli accostamenti di parole suggeriti dalle funzioni “Autocomplete”.
E’ invece evidente che l’impressione negativa ricevuta da chiunque legga l’abbinamento di parole suggerito può rimanere l’unica prodottasi sull’utente, che potrebbe arrestarsi alla lettura del solo suggerimento senza approfondire l’indagine attraverso l’esame dei documenti raccolti con la ricerca. Tale impressione risulta tanto più suggestiva per le modalità di abbinamento delle parole attraverso la funzione “Autocomplete” che – come si è detto – completa in via automatica la digitazione avviata dall’utente, anticipando e suggerendo termini che quest’ultimo non aveva neppure preso in considerazione.
In definitiva ritiene il collegio che l’abbinamento realizzato dalla funzione “Autocomplete” della parola “setta” a “Fondazione (omissis)” abbia carattere lesivo della reputazione della fondazione e il suo permanere contribuisca alla reiterazione dell’illecito diffamatorio.
La ricorrente Fondazione (omissis) ha affermato di essere un ente morale e di ricerca impegnato nell’ambito dell’esplorazione scientifica, della promozione del benessere sociale e della difesa dei diritti dell’infanzia impegnato in diversi progetti internazionali e di finanziarsi attraverso donazioni, 5 per mille e attività benefiche basate sul sostegno di sponsor.
Appare del tutto verosimile che l’abbinamento lesivo della reputazione della Fondazione abbia immediati riflessi sul sostegno, anche economico, che questa riceve e che è evidentemente collegato alla buona immagine dell’ente.
Sussiste dunque una ragione d’urgenza che giustifica l’immediata rimozione dell’abbinamento operato dalla funzione “Autocomplete”.
Appare invece di scarso rilievo la circostanza che tale specifico abbinamento possa risalire a molto tempo addietro, non essendovi elementi che consentano di affermare che la Fondazione (omissis) abbia avuto consapevolezza prima del giugno 2012.
Ritenuti così sussistente i presupposti cautelari sia quanto al fumus boni iuris che quanto al periculum in mora al nome “Fondazione (omissis) il reclamo, limitatamente all’associazione prodotta dalla funzione “Autocomplete” del termine “setta”, va accolto. Il collegio ritiene di compensare per la metà le spese delle due fasi cautelari in considerazione dell’accoglimento solo parziale del reclamo e delle istanze cautelari dei ricorrenti.
P.Q.M.
In parziale accoglimento del reclamo proposto:
1. ordina a Google inc. la rimozione dalle proprie interfacce di ricerca nel servizio “Autocomplete” dell’associazione tra il nome “Fondazione (omissis)” e il termine “setta”.
2. condanna Google inc. a rimborsare ai ricorrenti la metà delle spese dei due gradi cautelati liquidate – d’ufficio in assenza di nota spese e già operata la compensazione – in € 1.716,50 (di cui € 1.600,00 per compensi e € 116,50 per spese) per la prima fase ed € 1.716,50 (di cui € 1.600,00 per compensi e € 116,50 per spese) per la seconda fase.