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Come noto, in ambito medico, il paziente deve essere informato dei rischi e delle possibili conseguenze delle terapie e degli interventi cui viene sottoposto.

A tal proposito si parla di consenso informato, inteso come diritto del paziente all’autodeterminazione.

La sentenza n. 11950/13 si occupa di tracciare una linea di demarcazione tra due fattispecie accomunate dalla mancanza del consenso informato, ma con esiti diversi.

I Giudici di legittimità, infatti, hanno distinto due ipotesi: nella prima, la violazione del dovere, da parte del medico, di informare il paziente, determina l’insorgere di conseguenze pregiudizievoli alla salute; nel secondo, invece, non si verifica alcun peggioramento dello stato clinico del soggetto.

Cosa accade invece se l’omissione informativa è causata dal medico curante?

Secondo la Cassazione, entrambe la fattispecie meritano di essere tutelate.

Tuttavia, mentre nel primo caso grava sul danneggiato l’onere di provare che “l’adempimento da parte del medico dei suoi doveri informativi avrebbe con certezza prodotto l’effetto della non esecuzione dell’intervento chirurgico dal quale lo stato patologico è poi derivato (v. sul punto anche Cass. n. 2847/2010 in motivazione)”, nel secondo, invece, si ritiene che “la mancanza di consenso può assumere rilievo a fini risarcitori, anche ove non sussista lesione della salute (cfr. Cass., nn. 2468/2009) o se la lesione della salute non sia causalmente collegabile alla lesione di quel diritto, tutte le volte in cui siano configurabili conseguenze pregiudizievoli (di apprezzabile gravità, se integranti un danno non patrimoniale) che siano derivate dalla violazione del diritto fondamentale all’autodeterminazione in se stesso”.

La Suprema Corte, quindi, ha confermato la tesi secondo cui, in materia di responsabilità medica, la mancanza del consenso informato costituisca di per sé un illecito, risarcibile nella misura in cui, nel caso concreto, esso abbia prodotto conseguenze pregiudizievoli apprezzabili.

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE III CIVILE

Sentenza 6 marzo – 16 maggio 2013, n. 11950

…omissis…

Con la seconda doglianza, deducendo la violazione e la falsa applicazione dell’art. 277 c.p.c., comma 1, nonchè l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa il riconoscimento del danno patrimoniale e del danno estetico atto ad aggravare il danno non patrimoniale nella sua componente di danno alla vita di relazione e danno esistenziale, la ricorrente ha lamentato che la Corte di appello avrebbe dovuto riconoscerle un corrispettivo per la perdita di stipendio per il part time riduttivo del precedente reddito, cui era stata costretta, e per la prematura cessazione del rapporto di lavoro a causa della difficoltà di mantenere la posizione eretta ed a causa dei continui disturbi ai quali era soggetta durante le ore di lavoro. Inoltre, la Corte non avrebbe motivato in ordine alle ragioni esposte dall’appellante a sostegno delle richieste di specifico risarcimento del grave danno estetico influente sulla vita di relazione e sull’impatto esistenziale. Il motivo è stato concluso con il seguente quesito di diritto: “in caso di domanda di accertamento di responsabilità medica, con specifica richiesta del danno patrimoniale da lucro cessante per diminuzione dell’attività lavorativa e per la successiva anticipata interruzione della stessa, risultante dalla produzione documentale e con domanda di risarcimento del danno estetico influente sulla vita di relazione, anch’esso supportato da apposita documentazione, è legittimo, da parte dell’organo giudicante omettere di trattare la sussistenza o meno dei richiesti danni e di procedere, eventualmente, al loro risarcimento?”.

I motivi di impugnazione, sopra riportati nella loro essenzialità, sono in parte inammissibili ed in parte infondati.

In primo luogo, con riferimento ai profili motivazionali di entrambe le censure, deve rilevarsi la loro inammissibilità, in quanto non accompagnati dal prescritto momento di sintesi, (omologo del quesito di diritto), che ne circoscriva puntualmente i limiti, oltre a richiedere sia l’indicazione del fatto controverso, riguardo al quale si assuma l’omissione, la contraddittorietà o l’insufficienza della motivazione sia l’indicazione delle ragioni per cui la motivazione sarebbe inidonea a sorreggere la decisione (Cass. ord. n. 16002/2007, n. 4309/2008 e n. 4311/2008).

E ciò, alla luce dell’orientamento di questa Corte secondo cui “in caso di proposizione di motivi di ricorso per cassazione formalmente unici, ma in effetti articolati in profili autonomi e differenziati di violazioni di legge diverse, sostanziandosi tale prospettazione nella proposizione cumulativa di più motivi, affinchè non risulti elusa la “ratio” dell’art. 366-bis cod. proc. civ., deve ritenersi che tali motivi cumulativi debbano concludersi con la formulazione di tanti quesiti per quanti sono i profili fra loro autonomi e differenziati in realtà avanzati, con la conseguenza che, ove il quesito o i quesiti formulati rispecchino solo parzialmente le censure proposte, devono qualificarsi come ammissibili solo quelle che abbiano trovato idoneo riscontro nel quesito o nei quesiti prospettati, dovendo la decisione della Corte di cassazione essere limitata all’oggetto del quesito o dei quesiti idoneamente formulati, rispetto ai quali il motivo costituisce l’illustrazione (S.U. 5624/09, Cass. 5471/08).

Parimenti, non soddisfano le prescrizioni di cui all’art. 366 bis c.p.c., i quesiti formulati in ordine ai profili di violazione di legge, entrambi articolati come violazione o falsa applicazione dell’art. 277 c.p.c., comma 1, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in quanto sia l’uno che l’altro quesito di diritto risulta formulato in maniera assai generica e non in maniera compiuta ed autosufficiente in modo che dalla sua risoluzione scaturisca necessariamente il segno della decisione (cfr. Sez.Un. 28054/08). In particolare, nè l’uno nè l’altro quesito contiene la riassuntiva esposizione degli elementi di fatto sottoposti all’esame del giudice di merito nè tanto meno contiene l’indicazione della questione di diritto controversa e la formulazione del diverso principio di diritto rispetto a quello che è alla base del provvedimento impugnato, di cui si chiede, in relazione al caso concreto, l’applicazione (cfr. Sez. Un. n. 23732/07).

Ulteriore ragione di inammissibilità, riguardo ai profili di violazione di legge, deriva dalla considerazione che la censura di omessa pronuncia integra una violazione dell’art. 112 c.p.c., e quindi una violazione della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, che deve essere fatta valere esclusivamente a norma dell’art. 360 c.p.c., n. 4 (nullità della sentenza e del procedimento) e non come violazione o falsa applicazione di norme di diritto in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

E ciò, senza considerare l’irritualità del riferimento all’art. 277 c.p.c., norma assolutamente estranea alla fattispecie dedotta nel giudizio di secondo grado, riguardante l’omessa pronuncia del giudice d’appello in ordine ad uno specifico motivo di impugnazione, che sarebbe stato proposto.

Quanto ai profili di violazione di legge, giova aggiungere che, comunque, nè l’una nè l’altra ragione di doglianza coglie nel segno.

A riguardo, torna utile premettere che, come risulta dalla sentenza impugnata, la B. ed il Ba. proposero appello avverso la sentenza di primo grado “lamentando: 1) difetto nelle valutazioni peritali; 2) mancata considerazione di una riserva del CTU; 3) mancato risarcimento del danno patrimoniale; 4) mancato riconoscimento del danno del Ba.” (così testualmente a pag. 1, nello svolgimento del processo), chiedendo poi che la Corte confermasse la responsabilità del S. e degli altri sanitari che avevano disposto l’esame ed i tre interventi di laparatomia esplorativa senza il preventivo consenso.

Pertanto, nessuno dei quattro motivi, che concorreva a determinare l’oggetto del giudizio d’appello, secondo il principio “tantum devolutum quantum appellatum”, andava ad investire in maniera specifica la mancata decisione del giudice di primo grado sulla domanda risarcitoria per violazione del diritto all’autodeterminazione del paziente per effetto della omissione delle dovute informazioni, domanda che nel presente ricorso la ricorrente fa intendere di aver formulato in primo grado e che, peraltro, è una domanda ben diversa da quella che mira invece alla tutela del diritto alla salute per omessa prestazione del consenso informato (cfr. Cass. n. 10741/2009 e Cass. n. 18513/2007, che ha qualificato come mutamento della causa petendi il porre a fondamento dell’azione di risarcimento danni conseguenti ad intervento chirurgico il difetto di consenso informato, dopo aver fondato tale azione sulla colpa professionale).

E ciò, in quanto solo nel secondo caso, a differenza che nel primo, la lesione della salute si ricollega causalmente alla colposa condotta del medico nell’esecuzione della prestazione terapeutica, inesattamente adempiuta, e non alla omessa informazione in sè, occorrendo altresì provare – e tale onere compete al danneggiato – che l’adempimento da parte del medico dei suoi doveri informativi avrebbe con certezza prodotto l’effetto della non esecuzione dell’intervento chirurgico dal quale lo stato patologico è poi derivato, (v. sul punto anche Cass. n. 2847/2010 in motivazione).

Nel primo caso, invece, la mancanza di consenso può assumere rilievo a fini risarcitori, anche ove non sussista lesione della salute (cfr. Cass., nn. 2468/2009) o se la lesione della salute non sia causalmente collegabile alla lesione di quel diritto, tutte le volte in cui siano configurabili conseguenze pregiudizievoli (di apprezzabile gravità, se integranti un danno non patrimoniale) che siano derivate dalla violazione del diritto fondamentale all’autodeterminazione in se stesso.

La premessa torna utile nella misura in cui l’estrema genericità dei termini in cui la doglianza in esame è stata espressa, in una al mancato assolvimento dell’onere di autosufficienza dei ricorsi per cassazione, la rende assolutamente inammissibile in quanto non consente di apprezzare se i giudici di merito abbiano omesso di deliberare sulla domanda indicata dalla ricorrente nel ricorso oppure se questa domanda sia stata invece avanzata inammissibilmente, per la prima volta in sede di legittimità, nè permette di verificare se l’omessa pronuncia lamentata sia sussistita effettivamente.

Quanto alla pretesa violazione di legge, dedotta nella seconda doglianza, la sua infondatezza appare evidente ove si consideri che le sezioni unite, con la sentenza 11 novembre 2008, n. 26972 hanno escluso l’esistenza di una categoria autonoma di danno esistenziale e hanno sancito il principio dell’unitarietà del danno non patrimoniale, quale categoria omnicomprensiva che include anche il danno biologico ed il danno da reato.

Del resto, lo stesso pregiudizio di tipo estetico viene abitualmente risarcito all’interno del danno biologico , inclusivo di ogni pregiudizio diverso da quello consistente nella diminuzione o nella perdita della capacità di produrre reddito, tra cui appunto il danno estetico e alla vita di relazione.

Come ha già avuto modo di statuire questa Corte, poichè il danno biologico ha natura non patrimoniale e il danno non patrimoniale ha natura unitaria, è corretto l’operato del giudice di merito che liquidi il risarcimento del danno biologico in una somma omnicomprensiva, posto che le varie voci di danno non patrimoniale elaborate dalla dottrina e dalla giurisprudenza (danno estetico, danno esistenziale, danno alla vita di relazione, ecc.) non costituiscono pregiudizi autonomamente risarcibili (v. Cass. n. 24864/010).

Resta da esaminare l’ultima doglianza, articolata sotto il profilo della violazione e/o falsa applicazione dell’art. 92 c.p.c., comma 2, nonchè della motivazione omessa insufficiente e contraddittoria circa il diritto della parte vittoriosa di essere rimborsata delle spese di giudizio, con cui la ricorrente ha lamentato che la Corte di Appello avrebbe reso un provvedimento illegittimo per aver statuito anche sulle spese di primo grado e per averle compensato a danno della parte sostanzialmente vittoriosa, senza addurre alcuna motivazione a riguardo. Il motivo è stato accompagnato dal seguente quesito di diritto: “E’ legittimo il provvedimento del giudice di secondo grado che statuisce anche sulle spese di primo grado e le compensa a danno della parte sostanzialmente vittoriosa, senza addurre alcuna motivazione a riguardo?”.

La censura è manifestamente infondata. Invero, il giudice di secondo grado, quando riforma in tutto o in parte la sentenza di primo grado, è tenuto a provvedere ad un nuovo regolamento delle spese di entrambi i gradi, anche se la statuizione sulle spese non sia stata investita da specifico motivo di appello, poichè, in base al principio fissato dall’art. 336, comma 1, la riforma anche parziale della sentenza di primo grado determina la caducazione del capo della pronuncia, parzialmente riformata, che ha statuito sulle spese, con la conseguenza che deve rinnovare totalmente la regolamentazione di tali spese, alla stregua dell’esito finale della lite (ex multis, Cass. n. 18837/2010, n. 7486/06,, 12963/07, 13059/07).

Quanto al profilo motivazionale, va premesso che la motivazione addotta sul punto dalla Corte di merito, racchiusa nella proposizione “la peculiarità della vicenda clinica, la delicatezza delle questioni prospettate, l’obiettiva necessità di approfonditi accertamenti valutativi in sede tecnica e l’esito complessivo della lite individuano quei giusti motivi cui fa riferimento l’art. 92 c.p.c., per la compensazione delle spese dei due gradi di giudizio” – così scrivono i giudici di seconde cure – deve essere ritenuta assolutamente esaustiva e sufficiente consentendo di desumere chiaramente dal suo complesso le ragioni giustificatrici della disposta compensazione.

Del resto, è appena il caso di sottolineare che, in materia di governo di spese, la valutazione operata dal giudice di merito può essere censurata in cassazione solo se le spese sono poste a carico della parte totalmente vittoriosa ovvero quando la motivazione sia illogica e contraddittoria e tale da inficiare, per inconsistenza o erroneità, il processo decisionale oppure che siano state effettuate liquidazioni non rispettose delle tariffe professionali, ipotesi assolutamente non ricorrenti nella specie.

Considerato che la sentenza impugnata appare esente dalle censure dedotte, ne consegue che il ricorso per cassazione in esame, siccome infondato, deve essere rigettato. Al rigetto del ricorso segue la condanna della ricorrente alla rifusione delle spese di questo giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, alla stregua dei soli parametri di cui al D.M. n. 140 del 2012, sopravvenuto a disciplinare i compensi professionali.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della contro ricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che liquida in complessivi Euro 5.200,00 di cui Euro 5.000,00 per compensi, oltre accessori di legge, ed Euro 200,00 per esborsi.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 6 marzo 2013.

Depositato in Cancelleria il 16 maggio 2013.

L’immagine del post è stata realizzata da inspiri, rilasciata con licenza cc.

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