La predeterminazione del danno in favore del lavoratore, nel regime di tutela reale ex art. 18, della legge n. 300 del 1970 (Statuto dei Lavoratori) non esclude che esso possa richiedere il risarcimento del pregiudizio ulteriore derivatogli dal ritardo della reintegra. Lo ha ribadito la Corte di Cassazione Civile, con la sentenza n. 9073 del 15 aprile 2013.
Il caso: un lavoratore chiedeva al Tribunale del Lavoro la condanna del datore di lavoro al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali patiti in conseguenza della mancata reintegrazione sul posto di lavoro. Il datore, invece, chiedeva la reiezione della domanda in quanto assumeva di aver pagato tutte le retribuzioni ex art. 18 L. 300/1970.
La questione: Si discuteva, pertanto, sulla possibilità per il lavoratore di richiedere ulteriori danni derivanti dall’inadempimento datoriale all’ordine di reintegrazione.
La soluzione: La Suprema Corte, investita della questione, richiama un suo precedente orientamento secondo cui nel regime di tutela reale L. n. 300 del 1970, ex art. 18, avverso i licenziamento illegittimi, la predeterminazione legale del danno in favore del lavoratore (con riferimento alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento a quello della reintegrazione) non esclude che il lavoratore possa chiedere il risarcimento del danno ulteriore (nel caso, alla professionalità) che gli sia derivato dal ritardo della reintegra e che il Giudice, in presenza della relativa prova – il cui onere incombe sul lavoratore ma che, in presenza di precise allegazioni, può essere soddisfatto mediante ricorso alla prova presuntiva – possa liquidarlo equitativamente (Cass. n. 15915/2009; Cass. n. 26561/2007; Cass. n. 10116/2002; Cass. n. 10203/2002).
Di conseguenza, le ulteriori conseguenze, sotto il profilo risarcitorio, sono strettamente collegate ad un comportamento omissivo datoriale ulteriore rispetto al licenziamento ingiustificato. Pertanto, ad avviso degli Ermellini, non può parlarsi di duplicazione del risarcimento.
Ritiene, quindi, la Corte che detta interpretazione appare preferibile, in quanto diretta ad evitare che un licenziamento ingiustificato possa produrre una situazione ulteriormente mortificante e lesiva per la persona del lavoratore, privato della possibilità di reinserirsi prontamente sul posto di lavoro.
Il predetto orientamento, tuttavia, va riferito alla “vecchia” formulazione dell’art. 18 (che, per l’appunto, prevedeva la tutela della reintegrazione, a determinate condizioni). Oggi, in seguito all’entrata in vigore della Riforma Fornero (L. 92/2012), con la quale è stata, sostanzialmente, eliminata la tutela della reintegrazione, a fronte dell’introduzione di una mera indennità risarcitoria omnicomprensiva, non può più parlarsi di risarcimento del danno subito dal lavoratore a fronte della mancata tempestiva reintegrazione.
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REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DE RENZIS Alessandro – Presidente –
Dott. STILE Paolo – Consigliere –
Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere –
Dott. BRONZINI Giuseppe – rel. Consigliere –
Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 23925/2010 proposto da:
ITALIA HOSPITAL S.P.A. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA DELLA LIBERTA’ 20, presso lo studio dell’avvocato CAROLEO FRANCESCO, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati ALBE’ GIORGIO, ALBE’ ANNA, giusta delega in atti;
– ricorrente –
contro
B.G. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA SS. APOSTOLI 81, presso lo studio dell’avvocato MAINI ALESSANDRO AMEDEO IWAN, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato VENCO MARIO, giusta delega in atti;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 228/2010 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 08/04/2010 r.g.n. 616/08; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 29/01/2013 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE BRONZINI;
udito l’Avvocato ALBE’ GIORGIO;
udito l’Avvocato VENCO MARIO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FUCCI Costantino, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
Il Dott. B.G. chiedeva al Tribunale del lavoro di Como nei confronti di Italia Hospital spa la condanna della detta società, che non lo aveva reintegrato nel posto di lavoro nonostante le sentenze a lui favorevoli in tutti i gradi del giudizio, a pagargli in conseguenza del licenziamento e della mancata reintegrazione, il risarcimento del danno (alla professionalità, per perdita di chance, danno biologico, danno morale ed esistenziale), nonchè i contributi dovuti al Fondo pensione a norma del CCNL:
resisteva la società allegando che erano state pagate tutte le retribuzioni ex art. 18.
Il Tribunale di Como con sentenza del 6.3.2008 rigettava la domanda.
La Corte di appello di Milano con sentenza del 4..2.2010, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Como ed in parziale accoglimento dell’appello del B., condannava la Italia Hospital spa al pagamento della somma di Euro 35.000,00 per danno patrimoniale e alla somma di Euro 50.160,00 per danno non patrimoniale, mentre respingeva la domanda concernente i contributi del Fondo.
La Corte territoriale accedeva all’orientamento della Corte di cassazione che ritiene che il lavoratore possa richiedere ulteriori danni derivanti dal ritardo nell’ottemperare all’ordine di reintegrazione disposto dal Giudice e liquidava il danno non patrimoniale in relazione all’indennità di pronta disponibilità, ore notturne e festive ed alle maggiorazioni per straordinari che il ricorrente avrebbe percepito se fosse stato tempestivamente reintegrato sino al momento del pensionamento svolgendo le ordinarie mansioni previste contrattualmente. La Corte territoriale osservava che il danno non patrimoniale emergeva da plurimi fattori come il licenziamento a soli 58 anni, l’impossibilità di effettuare interventi presso la società dalla quale era stato licenziato, la difficoltà di trovare altre occupazioni, lo stato di involontaria inattività, la situazione di stress e disagio personale subita e, alla stregua della giurisprudenza della Corte di cassazione, sull’unicità dei profili di danno non patrimoniale riconosceva il 20% della retribuzione dal momento del ricorso al Tribunale di Como a quello dell’intimato licenziamento (sottolineando anche l’analogia con la giurisprudenza sulla forzata inattività del lavoratore per fatto addebitabile al datore di lavoro). Osservava anche che il danno biologico al lavoratore emergeva da un pluralità di documenti medici.
Per la cassazione di tale decisione propone ricorso la Italia Hospital con 4 motivi; resiste il B. con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione
Con il primo motivo si allega la violazione e falsa applicazione di norme di diritto con riferimento alla L. n. 300 del 1970, art. 18.
L’indennità corrisposta ex art. 18, comma 4, ha natura risarcitoria ed è volta a ristorare il lavoratore dal danno subito a causa del licenziamento e della conseguente inattività; pertanto non è configurabile un danno ulteriore che rappresenterebbe una duplicazione di quanto già ottenuto dal lavoratore.
Il motivo appare infondato alla luce dell’orientamento di questa Corte, prevalente ed in ogni caso preferibile, secondo il quale “nel regime di tutela reale L. n. 300 del 1970, ex art. 18, avverso i licenziamento illegittimi, la predeterminazione legale del danno in favore del lavoratore (con riferimento alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento a quello della reintegrazione) non esclude che il lavoratore possa chiedere il risarcimento del danno ulteriore (nel caso, alla professionalità) che gli sia derivato dal ritardo della reintegra e che il Giudice, in presenza della relativa prova – il cui onere incombe sul lavoratore ma che, in presenza di precise allegazioni, può essere soddisfatto mediante ricorso alla prova presuntiva – possa liquidarlo equitativamente (Cass. n. 15915/2009; Cass. n. 26561/2007; Cass. n. 10116/2002; Cass. n. 10203/2002). E’ lo stesso comportamento del datore di lavoro che non ottempera con immediatezza all’ordine di reintegrazione che lo espone ad ulteriori conseguenze sul piano risarcitorio facilmente evitabili attraverso un pronto adempimento del provvedimento di reintegrazione nel posto di lavoro. Non vi è pertanto alcuna duplicazione del risarcimento già effettuato attraverso la corresponsione delle retribuzioni dovute, in quanto l’ulteriore danno è strettamente collegato ad un comportamento omissivo datoriale solo eventuale, così come l’onere della prova del danno è a carico del lavoratore.
L’interpretazione qui seguita appare senz’altro preferibile in quanto diretta, nel complesso, ad evitare che un comportamento illegittimo – come un licenziamento non assistito nè da giusta causa nè da giustificato motivo – possa generare una situazione di ulteriore mortificazione e compromissione della dignità della persona del lavoratore che viene privato, nonostante l’ordine del Giudice, della possibilità di reinserirsi prontamente nel mondo lavorativo e di dare il proprio contributo produttivo al benessere collettivo, con l’evidente rischio anche di un logoramento della professionalità acquisita.
Con il secondo motivo si allega la violazione e/o falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 18: gli importi corrisposti al lavoratore a seguito di pronuncia di illegittimità del licenziamento hanno natura risarcitoria e non retributiva. Pertanto non è configurabile un danno patrimoniale. Non sussiste nel caso in esame una mora credendi.
Il motivo è infondato: la giurisprudenza prima citata riconosce il diritto del lavoratore a chiedere un danno “ulteriore” rispetto a quello corrispondente alla retribuzioni dovute L. n. 300 del 1970, ex art. 18, e non sussistono ragioni di sorta per escludere il danno economico purchè strettamente dipendente dall’inottemperanza datoriale all’ordine di reintegrazione che è fonte di eventuali altri “danni” purchè specificamente provati.
Con il terzo motivo si allega l’omessa motivazione o insufficiente e/o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio con riguardo anche agli artt. 2727, 2728 e 2729 c.c., e l’onere della prova circa la sussistenza di un danno “ulteriore” che sia derivato dalla mancata reintegra. Non era stata offerta la prova sia riguardo il danno patrimoniale che quello non patrimoniale;
non vi sono elementi per ritenere che il B. avrebbe percepito i compensi indicati ove fosse stato immediatamente reintegrato; non era stata disposta una consulenza medica diretta ad accertare l’effettivo stato di salute del B. dopo il recesso e l’ascrivibilità di malattie eventualmente sofferte alla situazione lavorativa, inoltre il B. si sarebbe dovuto attivare nel cercare altre occasioni lavorative onde contenere gli eventuali danni non patrimoniale.
Il motivo appare infondato. Circa il danno patrimoniale, ricordato che secondo la giurisprudenza di questa Corte prima richiamata l'”ulteriore danno” derivato al lavoratore dalla mancata tempestiva reintegrazione nel posto di lavoro può essere comprovato attraverso la “prova presentiva” (Cass. n. 15915/2009) o in via equitativa (Cass. n. 26561/2007) la Corte territoriale ha osservato che se l’ordine di reintegrazione fosse stato prontamente ottemperato il B. avrebbe, svolgendo le ordinarie mansioni di lavoro, conseguito i compensi indicati per indennità di disponibilità, indennità notturna, indennità festiva, maggiorazioni per straordinario, compensi che sono stati calcolati confrontando gli statini relativi al periodo in cui il B. era in servizio con il periodo successivo. Si tratta di una motivazione congrua e logicamente coerente e correlata a dati obiettivi, non contestati sotto il profilo quantitativo nel motivo; le censure sono generiche in quanto non si allegano ragioni di sorta per le quali ciò che era pacificamente avvenuto nel periodo precedente al licenziamento non sarebbe avvenuto, secondo un giudizio di plausibilità e verosimiglianza, anche per quello successivo.
Discorso analogo si deve fare in ordine al danno non patrimoniale. La Corte territoriale ha richiamato una serie di elementi che nel loro complesso hanno determinato – in conseguenza della mancata reintegrazione del posto di lavoro – una lesione “di interessi inerenti la persona, non connotati a rilevanza economica, ma meritevoli di tutela anche per la loro rilevanza costituzionale” che è stata complessivamente valutata alla luce della giurisprudenza di questa Corte onde evitare una duplicazione risarcitoria. Ora la Corte territoriale ha ricordato che il B. è stato licenziato all’età di 58 anni e quindi in una fascia di età nella quale è notoriamente difficile reimpostare la propria carriera, che è stato privato nonostante l’ordine di reintegra (non eseguita per ben sei anni dal momento del recesso del 2002 a quello del pensionamento nel 2008, nonostante il B. si fosse presentato più volte in Ospedale chiedendo di lavorare) della possibilità di operare nella struttura medica nella quella si era stabilmente inserito, che la notizia del licenziamento certamente aveva fatto il giro degli ambienti medici ed ospedalieri, che secondo le norme di ordinaria esperienza il recesso lo aveva sicuramente pregiudicato impedendogli di proseguire in modo lineare nel processo di aggiornamento e nell’attività chirurgica, che lo stato di forzata inattività aveva procurato un’indubbia situazione di stress e di perdita di fiducia come attestato dalla documentazione medica e della relazioni dei medici curanti. Questo complesso di ripercussioni negative su vari fronti e profili, facilmente evitabili dal datore di lavoro ove avesse tempestivamente provveduto alla pronta reintegrazione del dipendente dopo il primo accertamento giudiziario del 2003, ha – per la Corte territoriale – determinato un danno non patrimoniale (valutato come detto nel suo complesso) rapportabile a quello subito dal lavoratore che subisce una totale e forzosa inattività per colpa del datore di lavoro e che è stato liquidato – tenuto conto anche della giurisprudenza formatasi in ordine a quest’ultima situazione – nella misura del 20% della retribuzione base. Ora sul punto la motivazione appare congrua, logicamente coerente, strettamente riferita a dati provenienti dalla comune esperienza o ad emergenze documentali di ordine medico-legali, ed appare coerente con la giurisprudenza di questa Corte in ordine alla prova equitativa del danno non patrimoniale ed alla determinazione unitaria dell’entità dello stesso; per contro le censure appaiono assolutamente generiche o di merito, inammissibili in questa sede. L’ipotesi che il B., licenziato a 58 anni, potesse agilmente ritrovare altre occasioni di lavoro, nonostante la sua forzata espulsione dal luogo di lavoro e la reiterata decisione di mantenerlo inattivo nonostante l’ordine di reintegrazione emesso da più Giudici, è rimasta priva di riscontri di sorta.
Con l’ultimo motivo si allega la violazione di norme di diritto e/o la falsa applicazione di norme di diritto in relazione all’art. 2697 c.c., e dei principi sull’onere della prova a carico del lavoratore in caso di domanda di risarcimento di danni ulteriori a quelli riconosciuti L. n. 300 del 1970, ex art. 18. I trattamenti retributivi riconosciuti sono variabili ed eventuali; il danno biologico ed esistenziale non risulta provato nè emerge dalle consulenze di parte.
Il motivo appare infondato e reitera in sostanza quanto già allegato nel motivo precedente. La prova presuntiva in ordine al danno patrimoniale risulta offerta in base alla ricostruzione dei trattamenti percepiti prima del licenziamento e dopo la reintegrazione; non è stata indicata alcuna ragione per la quale il B., una volta reintegrato, non avrebbe potuto tornare a svolgere le mansioni precedentemente assolte. Circa il danno non patrimoniale si è detto sopra: la Corte territoriale ha indicato un pluralità di elementi, anche di ordine medico-legale, che portano a ritenere una analogia con la situazione di totale inattività di un dipendente per colpa del datore di lavoro, per cui il danno è stato liquidato in via equitativa con riferimento alla giurisprudenza formatasi in ordine a tale ultima situazione, secondo una valutazione congruamente e logicamente motivata e coerente con la giurisprudenza di legittimità in ordine alla valutazione e liquidazione in via equitativa del danno non patrimoniale.
Si deve quindi rigettare il proposto ricorso. Le spese di lite – liquidate come al dispositivo – seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte:
Rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in Euro 50,00 per spese nonchè in Euro 5.000,00 per compensi oltre accessori.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 29 gennaio 2013.
Depositato in Cancelleria il 15 aprile 2013