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Con la sentenza n. 23713 del 2012, la Cassazione apre una piccola breccia verso il riconoscimento della validità degli accordi conclusi dai coniugi prima del matrimonio e destinati ad avere efficacia in caso di fallimento dell’unione.

Sebbene si tratti di un percorso ancora lungo e pieno di insidie, l’Italia si allinea timidamente al trand di numerosi altri paesi, soprattutto d’oltreoceano, dove i Prenuptial agreements, rappresentano una prassi consolidata da decenni.

La sentenza in esame ha ad oggetto un giudizio di divorzio, in cui il marito convenuto, chiedeva in via riconvenzionale al Giudice che questi disponesse, con una sentenza costitutiva, il trasferimento di proprietà in suo favore di un immobile della moglie ( o ex tale) adducendo a giustificazione della sua richiesta l’esistenza tra i coniugi di un accordo in tal senso.

Il giorno precedente le nozze infatti, i coniugi avevano sottoscritto un accordo in base al quale, a titolo di rimborso delle spese sostenute per ristrutturare l’immobile destinato a diventare abitazione familiare, già di proprietà della moglie, quest’ultima si era impegnata, in caso di fallimento del matrimonio, a trasferire al marito un altro immobile di sua proprietà.

Stando dunque al tradizionale orientamento della giurisprudenza in materia, tali accordi sarebbero da considerarsi nulli per illiceità della causa, derogando al disposto dell’art. 160 c.c..

La tesi maggioritaria che nega la validità di tali pattuizioni, si fonda sul concetto di “commercio di status”, ravvisandosi in tali accordi prematrimoniali il “prezzo” pagato da un coniuge all’altro per addivenire in modo più facile allo scioglimento del vincolo; questi accordi condizionerebbero di fatto il comportamento processuale del coniuge, spesso economicamente più debole, inducendolo a non difendersi in vista dell’imminente vantaggio economico ( Cass. 18 febbraio 2000, n.1810; Cass. 12 febbraio 2003, n. 2076).

Nel caso di specie però, la Corte di Cassazione ritiene di non trovarsi difronte ad un vero e proprio accordo prematrimoniale, in tal modo raggirando le censure note alla giurisprudenza tradizionale, ma piuttosto ad un caso di datio in solutum.

Si tratterebbe di un contratto, di un accordo cioè tra le parti, libera espressione della loro autonomia negoziale.

Il supremo Collegio così argomenta: “si consideri che in costanza di matrimonio (e prima della crisi familiare) opera tra i coniugi un dovere di contribuzione reciproco.

Con la contribuzione dunque si realizza il soddisfacimento reciproco dei bisogni materiali e spirituali di ciascun coniuge.

Può sicuramente ipotizzarsi che, nell’ambito di una stretta solidarietà tra coniugi, i rapporti di dare ed avere tra di essei, subiscano, su loro espresso accordo, una sorta di quiescenza, una sospensione appunto che cesserà con il fallimento del matrimonio e con il venir meno, provvisoriamente con la separazione e definitivamente con il divorzio, dei doveri e diritti coniugali”.

Se certamente non può dubitarsi della portata innovativa di una tale pronuncia, non può allo stesso tempo nascondersi l’intrinseca contraddittorietà della stessa.

Il Supremo Collegio, consapevole di quanto strette siano le maglie della libertà negoziale in ambito familiare e di quanto questo stia ingenerando nei coniugi il sempre crescente bisogno di derogarvi, anche con accordi “prematrimoniali”, continua tuttavia a rimanere fermo su alcune posizioni restrittive e in linea con l’orientamento tradizionale.

Prova ne sia che l’accordo oggetto dell’analisi non viene mai qualificato come patto prematrimoniale, ma piuttosto come contratto.

Un tale atteggiamento comporta il diffondersi di confusione tra gli operatori del diritto, che invece auspicano l’indicazione chiara di un nuovo percorso in linea con gli ordinamenti di altri paesi Europei e non.

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