Secondo la Suprema Corte l’insegnante che costringe il proprio alunno a scrivere per 100 volte sul quaderno la frase “sono deficiente” integra gli estremi del delitto di cui all’art. 571 c.p. (abuso dei mezzi di correzione e di disciplina).
Il fatto da cui trae origine la decisione in commento riguarda un episodio avvenuto presso la scuola media statale di Palermo dove la professoressa X, a seguito di una condotta di bullismo tenuta dall’alunno Y ai danni del compagno Z, e consistente in un atteggiamento di derisione e emarginazione di quest’ultimo, assegnò in danno dell’alunno Y, resosi colpevole di tale comportamento, il compito di scrivere per 100 volte la frase “sono deficiente” sul proprio quaderno e di riportarlo il giorno successivo alla professoressa accompagnato dalla firma dei genitori.
In sede di giudizio di primo grado il Tribunale ritenne la condotta dell’insegnante X penalmente irrilevante poichè, a suo dire, la “punizione” inflitta dall’insegnante costituiva un “intervento tempestivo ed energico” volto ad interrompere una condotta bullistica fino a quel momento tenuta dall’alunno Y.
In particolare il giudice di prime cure ritenne adeguato l’intervento adoperato dall’insegnante con la finalità pedagogica da perseguire, ovvero la correzione dei comportamenti disciplinari della persona. Pertanto, secondo il Tribunale, la condotta tenuta dall’insegnante non integrava gli estremi di cui all’art. 571 poichè la dinamica dell’intervento educativo posta dalla professoressa non poteva essere suscettibile di generare un pericolo di malattia del corpo o nella mente di cui all’art. 571 c.p..
La decisione del Tribunale venne completamente ribaltata dalla Corte di Appello la quale, ritenendo sussistenti gli estremi della condotta di cui all’art. 571 c.p. ricostruì la vicenda in esame e mettendo subito in discussione la condotta di bullismo dell’alunno Y, così come indicata nella sentenza di primo grado.
Infatti, secondo il Collegio il comportamento posto dall’alunno Y “non poteva consistere in una sistematica azione di derisione nè un tentativo di emarginazione a danno del compagno” poichè dalle risultanze delle perizie tecniche effettuate, era emerso che l’alunno non aveva mai presentato alcun tratto negativo, problematico e relazionale con gli altri compagni e, come tale, non necessitava di interventi particolarmente rigorosi. Conseguentemente alla luce di tali considerazioni la Corte di Appello considerò la punizione inflitta dall’imputata ai danni dell’alunno Y, “particolarmente afflittiva, umiliante ed eccedente il ruolo della funzione educativa”.
La questione fu portata da ultimo all’attenzione della Corte di Cassazione la quale , con sentenza n. 34492/2012 confermò la condanna dell’insegnante per il delitto di cui all’art. 571 c.p. fondando la propria decisione sul concetto di “correzione”.
Tale terminologia, secondo la Suprema Corte ha per presupposto la sussistenza di un potere di cui alcuni soggetti sono titolari, nell’ambito di determinati rapporti, di educare e di correggere comportamenti scorretti al fine di evitare che questi possano essere compiuti in danno a soggetti terzi.
Il concetto di correzione, costituente uno degli elementi fondamentali dell’art. 571 c.p. presuppone per l’educatore che tale potere venga esercitato con mezzi consentiti ed in presenza delle condizioni che ne legittimano l’esercizio, e in stretta relazione con le finalità ad esso proprie senza, quindi, che il mezzo adoperato ecceda i limiti previsti dall’ordinamento. Ne deriverebbe, pertanto, che laddove l’intervento correttivo venisse utilizzato per un interesse diverso da quello che è a lui proprio, ovvero a scopo vessatorio, umiliante ecc. la condotta deve senz’altro considerarsi abusiva e, pertanto, penalmente rilevante.
Con riferimento al caso di specie, prosegue la Corte, non sussiste una congruenza tra il metodo educativo adoperato dall’insegnante e il risultato che si voleva raggiungere poichè “reprimere fenomeni di bullismo con metodi vessatori come quello di far scrivere 100 volte la frase “sono deficiente”” costituisce una condotta che non solo non è proporzionale alla finalità che l’insegnante intendeva raggiungere ma potrebbe addirittura rafforzare il convincimento per l’alunno che i rapporti relazionali siano decisi con l’utilizzo della forza e del potere.
Pertanto, a giudizio della Corte, l’inflizione della punizione assunta dall’insegnante deve essere considerarsi non solo lesiva della dignità dell’alunno, con particolare riferimento alle modalità di esecuzione in cui essa era avvenuta (ovvero alla presenza dei compagni in classe e con la sottoscrizione della firma dei genitori), ma anche idonea a “rafforzare nell’alunno il convincimento che i rapporti relazionali con gli altri, specialmente i più deboli, siano regolati con l’uso della forza”.
La sussistenza del delitto de quo risulterebbe, secondo la Suprema Corte, inoltre essere confermata anche dalla sussistenza dell’elemento soggettivo (ovvero il dolo generico) intesa come consapevolezza della portata offensiva del metodo utilizzato dal vigilante.
Infatti, secondo la Cassazione nel caso di specie la sussistenza dell’elemento soggettivo sarebbe rinvenibile nella scelta dell’insegnante della frase da far scrivere all’alunno che dapprima consisteva nel “sono un emerito deficiente” e poi successivamente modificata in “sono un deficiente”.
Così facendo la modificazione della espressione adoperata dall’insegnante costituisce un chiaro indice di consapevolezza della lesività della espressione utilizzata poichè, secondo la Corte, l’epiteto “sono un deficiente” in relazione al caso in esame, non era stato impiegato per rappresentare all’alunno il significato di manchevole o carente ma, viceversa, era stato utilizzato in senso dispregiativo, ovvero per recare all’alunno un senso di mortificazione e di vergogna sia nei confronti di sè stesso e nei confronti dei suoi compagni.
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CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. VI PENALE –
SENTENZA 10 settembre 2012, n.34492
– Pres. Milo –
– est. Ippolito
Ritenuto in fatto
1. La professoressa G.V., insegnante presso la Scuola media statale Silvio Boccone di Palermo, fu tratta a giudizio per rispondere del reato di cui agli artt. 81 cpv., 571 e 582 cod. pen. per avere abusato dei mezzi di correzione e di disciplina in danno dell’alunno G.C., di 11 anni, costringendolo a scrivere per 100 volte sul quaderno la frase “sono un deficiente”, e per avere adoperato nei suoi confronti un comportamento palesemente vessatorio, rivolgendogli espressioni che ne mortificavano la dignità, rimproverandolo e minacciandolo di sottrarlo alla tutela dei genitori, così causandogli un disagio psicologico per il quale fu necessario sottoporlo a cure mediche e a un percorso di psicoterapia (in Palermo sino al 7 marzo 2006).
2. All’esito di giudizio abbreviato, il giudice dell’udienza preliminare del tribunale di Palermo assolse l’imputata per insussistenza dei fatti contestati.
Ritenne il giudicante che il singolare “compito” assegnato dalla professoressa V. all’alunno C. fosse stato motivato dall’intento dell’insegnante di interrompere, con un intervento tempestivo ed energico, una condotta “bullistica” del C., che aveva tenuto un atteggiamento derisorio ed emarginante nei confronti dei compagno di classe A.G.
L’imposizione dell’insegnante, «di per sé potenzialmente anche suscettibile di integrare gli estremi del mezzo educativo sproporzionato e come tale abusivo», fu ritenuta adeguata rispetto alla finalità pedagogica “concretamente” da perseguire, tenuto conto della necessità di un tempestivo intervento «per la realizzazione di plurimi obiettivi pedagogico-disciplinari, delle caratteristiche della persona a cui il mezzo di disciplina e correzione si rivolgeva, del modo in cui l’iniziativa dell’imputata veniva percepita dall’intera classe».
In conclusione, il giudicante valutò che non sussistesse l’abuso di mezzi di correzione suscettibile di ingenerare un pericolo concreto di malattia nel corpo o nella mente, in relazione alla dinamica dell’intervento educativo, al contesto in cui l’azione della docente si era inserita, alle finalità della condotta dell’insegnante, al modo in cui essa era stata percepita dall’allievo e dai compagni di classe.
3. In accoglimento dell’impugnazione del Pubblico Ministero e in riforma della prima sentenza, la Corte d’appello di Palermo ha dichiarato l’imputata colpevole del reato di abuso dei mezzi di disciplina, di cui all’art. 571, commi primo e secondo, cod. pen., ritenendo assorbito nell’aggravante del secondo comma il reato di lesioni contestato al capo B) e, concesse le attenuanti generiche ritenute equivalenti alla detta aggravante, l’ha condannata alla pena di un mese di reclusione (pena base: un mese e quindici giorni, ridotta di un terzo per il rito), con i doppi benefici di legge, nonché al risarcimento del danno in favore della parte civile costituita, da liquidarsi in separata sede.
I giudici d’appello, ricostruendo la vicenda, hanno innanzitutto messo in discussione la situazione di bullismo evocata nella sentenza di primo grado e hanno escluso in fatto che a C. «potesse essergli addebitata un’azione di “sistematica derisione” né “un tentativo di emarginazione” in danno del compagno», aggiungendo poi che G.C. «non era un ragazzino problematico», bensì «un alunno intelligente, vivace, ubbidiente, che non creava problemi particolari … In sostanza, un minore con una personalità che non presentava alcun tratto negativo, e non necessitava di interventi particolarmente rigorosi».
La Corte territoriale ha concluso rilevando che l’imputata «ha manifestato nei rapporti con il minore un comportamento particolarmente afflittivo e umiliante, trasmodante l’esercizio della sua funzione educativa, sanzionando davanti la classe con una frase contenente una qualificazione offensiva nei confronti del medesimo, costringendolo ad insultarsi scrivendo cento volte la frase in questione ed imponendogli di fare firmare il compito dai genitori».
4. Ricorre per cassazione il difensore dell’imputata, che deduce: a) violazione dell’art. 606.1 lett. e) c.p.p. in relazione alla motivazione sulla sussistenza dell’elemento soggettivo del reato previsto e punito dall’art. 571 cod. pen.; b) violazione dell’art. 606.1 lett. b) c.p.p. in relazione all’art. 571, comma primo, cod. pen.; c) violazione dell’art. 606.1 lett. e) c.p.p. in relazione all’art. 571, comma secondo, cod. pen..
Considerato in diritto
1. Il ricorso deve essere accolto limitatamente al terzo dei motivi sopra elencati, relativo alla circostanza aggravante di cui all’art. 571, comma secondo, cod. pen., mentre va rigettato nel resto, ossia sui punti concernenti la responsabilità dell’imputata per il delitto di abuso dei mezzi di correzione o di disciplina.
2. Rileva li Collegio che le premesse generali in diritto da cui hanno preso avvio i giudici del merito, di primo grado e di secondo grado, giungendo però ad opposte conclusioni, sono in linea con la “rilettura” che questa Corte ha fatto della fattispecie prevista dall’art. 571 c.p. (abuso dei mezzi di correzione o di disciplina), alla luce della Costituzione, del diritto di famiglia (introdotto dalla legge n. 151/1975 e succ. modd.), della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del bambino (approvata a New York il 20 novembre 1989 e ratificata dall’Italia con legge n. 176/1991), a cominciare dalla reinterpretazione del termine ‘correzione’ nel senso di educazione, con riferimento ai connotati intrinsecamente conformativi di ogni processo educativo in cui è coinvolto un bambino (per tale dovendo intendersi un soggetto in evoluzione, ossia una persona sino all’età di 18 anni, secondo la definizione della predetta Convenzione ONU).
Come è stato già affermato in una risalente sentenza di legittimità (Cass. n. 4904/1996, Rv. 205033), dal processo educativo va bandito ogni elemento contraddittorio rispetto allo scopo e al risultato che il nostro ordinamento persegue, in coerenza con i valori di fondo assunti e consacrati nulla Costituzione della Repubblica.
Non può ritenersi lecito l’uso della violenza, fisica o psichica, distintamente finalizzata a scopi ritenuti educativi: e ciò sia per il primato attribuito alla dignità della persona del minore, ormai soggetto titolare di diritti e non più, come in passato, semplice oggetto di protezione (se non addirittura di disposizione) da parte degli adulti; sia perché non può perseguirsi, quale meta educativa, un risultato di armonico sviluppo di personalità, sensibile ai valori di pace, tolleranza, convivenza e solidarietà, utilizzando mezzi violenti e costrittivi che tali fini contraddicono.
Come ha esattamente sottolineato il Tribunale, l’abuso ha per presupposto logico e necessario l’esistenza di un uso lecito: l’abuso del mezzo di correzione si pone come abuso di un potere di cui alcuni soggetti sono titolari nell’ambito di determinati rapporti (di educazione, istruzione, curva, custodia, etc.), potere che deve essere esercitato nell’interesse altrui, ossia di coloro che possono diventare soggetti passivi della condotta.
Con più particolare riferimento all’ambito scolastico, il concetto di abuso presuppone l’esistenza in capo al soggetto agente di un potere educativo o disciplinare che deve essere usato con mezzi consentiti in presenza delle condizioni che ne legittimano l’esercizio per le finalità ad esso proprie e senza superare i limiti tipicamente previsti dall’ordinamento.
Ne consegue che, da un lato, non ogni intervento correttivo o disciplinare può ritenersi lecito sol perché soggettivamente finalizzato a scopi educativi o disciplinari; e, d’altro lato, può essere abusiva la condotta, di per sé non illecita, quando il mezzo è usato per un interesse diverso da quello per cui è strato conferito, per esempio a scopo vessatorio, di punizione esemplare, per umiliare la dignità della persona sottoposta, per mero esercizio d’autorità o di prestigio dell’agente, etc.
Sotto altra profilo, la nozione giuridica di abuso dei mezzi di correzione o di disciplina non può ignorare l’evoluzione del concetto di “abuso sul minore”, che si è andato evolvendo e specificando nel tempo. Da una sorpassata e limitativa nozione di abuso, inteso come comportamento attivo dannoso sul piano fisico per il bambino, l’attuale cultura giuridica e quella medica e psicologica qualificano come abuso anche quello psicologico, correlato allo sviluppo di numerosi e diversi disturbi psichiatrici.
Costituisce abuso punibile a norma dell’art 571 cod. pen. (e che, nella ricorrenza dell’abitualità e del necessario elemento soggettivo, può integrare arche il delitto di maltrattamenti) anche il comportamento doloso che umilia, svaluta, denigra o violenta psicologicamente un bambino, causandogli pericoli per la salute, anche se è compiuto con soggettiva intenzione educativa o di disciplina (Cass. n. 16491/2005).
3. Tanto premesso, osserva il Collegio che in questa sede non può essere posta in discussione – salvo quanto si dirà con riferimento alla circostanza aggravante di cui all’art. 571 comma secondo cod. pen. – la ricostruzione della vicenda operata dalla Corte d’appello, a rettifica di quanto ritenuto dal giudice di primo grado, in considerazione della completezza, coerenza e logicità della motivazione della sentenza impugnata.
La Corte palermitana, in adesione ai principi di diritto sopra indicati, ha ritenuto che la condotta dell’imputata ha integrato oggettivamente la fattispecie del delitto in esame.
Manifestamente infondato è, pertanto, il secondo motivo di ricorso. Delle lucide argomentazioni della sentenza impugnata (che dà atto delle perspicue considerazioni generali svolte dal Tribunale, evidenziandone l’incoerenza delle conclusioni), deve particolarmente sottolinearsi l’affermata necessità che, la risposta educativa dell’istituzione scolastica sia sempre proporzionata alla gravità del comportamento deviante dell’alunno e che, in ogni caso, essa non può mai consistere in trattamenti lesivi dell’incolumità fisica o afflittivi della personalità dei minore.
Opportunamente la Corte territoriale evidenzia la severa presa di distanza dalla condotta tenuta dall’imputata operata dalla preside, che ammonì per iscritto l’insegnante per quanto aveva fatto e rimarcò, a presidio della missione della scuola, che «certe espressioni nei confronti degli: alunni noi non possiamo permettercele […]. Altrimenti abbiamo fallito nel nostro ruolo».
A commento di tale lucida consapevolezza da parte del dirigente dell’istituzione scolastica in cui la presente vicenda ebbe luogo, si può soltanto aggiungere che, nel processo educativo, essenziale è la congruenza tra mezzi e fini, tra metodi e risultati, cosicché diventa contraddittoria la pretesa di contrastare il bullismo con metodi che finiscono per rafforzare il convincimento che i rapporti relazionali (scolastici o sociali) sono decisi dai rapporti di forza o di potere.
La costrizione a scrivere cento volte la frase sopra riportata, lesiva della dignità dell’alunno e umiliante per le modalità di esecuzione (in classe, alla presenza dei compagni e con richiesta di sottoscrizione dei genitore per presa conoscenza), lungi da indurre nel C. sentimenti di solidarietà verso i soggetti vulnerabili, era obiettivamente idonea a rafforzare nel ragazzo il convincimento che i rapporti relazionali sono regolati dalla forza, quella sua verso i compagni più deboli, quella dell’insegnante verso di lui.
4. Con il primo motivo il ricorrente contesta la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato, assumendo che la scelta dell’insegnante di modificare la punizione inflitta all’alunno (riducendola, dall’iniziale ordine di scrivere cento volte la frase “sono un emerito deficiente” all’espressione “sono deficiente”, dopo che il ragazzo aveva domandato se doveva scrivere anche il termine “emerito”) ha un’importanza fondamentale per valutare favorevolmente la condotta dell’insegnante, escludendone l’intento abusivo.
A prescindere dalla considerazione che per l’integrazione dell’elemento soggettivo del reato in esame è sufficiente il dolo generico, senza necessità di dolo specifico (Cass. n. 18289/2010, Rv. 247368; n. 45467/2010, Rv. 249216; n. 4904/1996, Rv. 205033), rileva il Collegio che il votivo è inammissibile, integrando una censura all’apprezzamento di fatto operato dai giudici, di cui in sentenza si da conto con motivazione giuridicamente corretta e indenne da vizi logici.
La Corte territoriale ha dedotto dalle dichiarazioni rese dalla stessa insegnante «la dimostrazione della sua consapevolezza d’offendere il minore», avendo l’imputata precisato in dibattimento «di avere usato la parola “deficiente” perché gli alunni la “usavano tra di loro” e riteneva, quindi, che fosse comprensibile”».
Tenuto conto del difficile ambiente circostante e del livello culturale della scuola, la Corte palermitana ha condivisibilmente tratto la conclusione che il termine ‘deficiente non fu usato, come l’insegnante aveva inizialmente preteso di giustificare alla polizia giudiziaria, nel senso etimologico dì “carente, scarso o manchevole”, bensì in quello corrente e spregiativo di “imbecille, cretino o stupido”.
Conferma di tale intento la Corte d’appello ha individuato nella condotta successiva dell’imputata, che – dopo che il padre del C. aveva protestato per la punizione inflitta al figlio – aveva richiesto agli alunni di esprimere su bigliettini le valutazioni sull’accaduto. Plausibilmente, i giudici d’appello annotano che «l’iniziativa dei bigliettini può essere considerata un atto ulteriormente vessatorio nei confronti del C., in contrasto con i più elementari principi in materia di scienza pedagogica, giacché ha di fatto determinato, anche per la messa in discussione dell’intervento tutelante del padre del minore, una situazione di contrapposizione e di conflitto tra il medesimo e la quasi totalità dei compagni, col conseguente suo isolamento rispetto al gruppo”. A tali condivisibili considerazioni, il giudice d’appello, aggiunge anche le minacce rivolte al C. di allontanarlo dai genitori.
5. Va accolto, invece, l’ultimo motivo formulato dal difensore ricorrente, che censura la sentenza per avere «ritenuto provato il disturbo del comportamento causato dalla condotta dell’insegnante attraverso la probabilità” avanzata dallo psicologo.
Osserva il Collegio che per l’integrazione della fattispecie delineata dall’art. 571, comma 1, cod. pen. è sufficiente che dalla condotta dell’agente derivi il pericolo di una malattia fisica o psichica, che può essere desunto anche dalla natura stessa dell’abuso, secondo le regole della comune esperienza (Cass. n. 6001/1998, Rv. 210535) ovvero della scienza medica o psicologica, senza necessità, trattandosi di tipico reato di pericolo, che questa si sia realmente verificata.
Sussiste il pericolo di malattia nella mente ogni qualvolta ricorre il concreto rischio di rilevanti conseguenze sulla salute psichica del soggetto passivo. Ed è opinione comune nella letteratura scientifico-psicologica che metodi di educazione rigidi ed autoritari, che utilizzino comportamenti punitivi violenti o costrittivi, come quelli realizzati dall’imputata, siano pericolosi e talora e, in determinate condizioni anche dannosi per la salute psichica (Cass. n. 16491/2005, Rv. 231452).
Per l’integrazione dell’ipotesi aggravata prevista dal secondo comma dell’art. 571 cod. pen. occorre, invece, la sicura prova della lesione fisica o psichica, che non può ritenersi raggiunta dalla probabilità e tanto meno dalla mera possibilità di essa.
La sentenza in esame ha valorizzato la diagnosi (“disturbo acuto da stress”) formulata dallo psicologo dr C. che, sentito dalla polizia giudiziaria, affermò che «tale disturbo poteva essere stato causato dal comportamento dell’insegnante” (pag. 29 della sentenza impugnata).
Non essendo, dunque, stata raggiunta la prova della lesione, la sentenza deve essere annullata sul punto, senza necessità, tuttavia, di annullamento con rinvio. Adottando, infatti, gli stessi parametri della Corte d’appello, la pena può essere determinata da questa Corte in 15 giorni di reclusione (pena base giorni 23, meno un terzo per il rito abbreviato).
P.Q.M.
La Corte annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla ritenuta aggravante, che esclude, rideterminando la pena in 15 giorni di reclusione.
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