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Malpractice medica e onere probatorio: spetta al convenuto dimostrare che l’inadempimento non è avvenuto

Licenziamento disciplinare: ai fini della validità dell’addebito non rilevano errori nell’individuazione dei fatti contestati (Cass. Civ. Sez. Lav. 24567/2011).

Il trasferimento del giornalista dettato da incompatibilità ambientali è illegittimo se non supportato da idonei argomenti di prova.

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La Suprema Corte torna nuovamente su uno dei temi più caldi degli ultimi anni: nei casi di responsabilità medica su chi ricade l’onere probatorio relativo al nesso di causalità?

La sentenza n. 23562/11, di fatto, ribadisce il principio più volte espresso dai giudici di legittimità e cristallizzato (forse non troppo) dalla ormai celebre pronuncia a Sezioni Unite n. 577/88.

La Cassazione, in sostanza, ritiene che la ripartizione dell’onere probatorio in tale materia segua le regole proprie della responsabilità contrattuale, per cui l’attore deve limitarsi a provare l’esistenza del contratto (o il contatto sociale) e l’insorgenza o l’aggravamento della patologia ed allegare l’inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato, rimanendo a carico del debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante.

E’ opportuno in ogni caso ribadire che l’inversione dell’onere della prova riguarda il nesso causale, cioè l’an e non il quantum, per cui ricade sempre sul paziente l’onere di dimostrare l’entità dei danni subiti come conseguenza dell’inadempimento.

Nel caso in esame, invece, avente ad oggetto un caso di danni subiti da un minore al momento della nascita, la Corte d’Appello di Venezia asseriva che “incombeva al paziente dimostrare 1) che le concrete modalità di esecuzione dell’intervento medico-sanitario differivano, nel caso in esame, da quelle comunemente ritenute idonee; 2) il nesso di causalità tra quelle condotte e il danno lamentato, sia che le prime implicassero la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà – e in tal caso al professionista che avesse invocato il più discreto grado di colpa di cui all’art. 2236 c.c. incombeva l’onere di provare la complessità dell’intervento – sia che si trattasse di un intervento di routine”.

Pertanto, la Suprema Corte è stata costretta a cassare la sentenza de qua e a rinviare la causa alla Corte d’Appello di Trieste.

Approfondimenti: Responsabilità medica e Decreto Balduzzi

L’immagine del post è stata realizzata da Cezjaw, rilasciata con licenza cc.

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